26 maggio 2015 18:18
Bjork

Vulnicura è un disco estremo”, ha detto Björk in un’intervista. Lei si riferiva all’elevato tasso di melodrammaticità dei testi e della musica, ma lo stesso aggettivo potrebbe valere per la forma comunicativa, dove il personale viene raccontato con la volontà di trascinare l’ascoltatore nella tragedia intima, tra le righe di un diario privato che diventa pubblico. Della trama narrativa del disco si è parlato molto. Racconta la fine della relazione della cantante islandese con Matthew Barney, esposta a tappe lungo un asse cronologico preciso: nove, cinque e tre mesi prima della rottura, due, sei e undici mesi dopo. In questo scorrere del tempo le canzoni seguono l’evolversi degli stati d’animo, dall’iniziale presa di coscienza di un problema si passa attraverso speranza, malinconia, rabbia, lutto e separazione. È facile riconoscersi nelle parole di Björk e, a sentire lei, “il disco parla di ciò che potrebbe accadere a una persona alla fine di una relazione”. Ma nella verità ossessiva e dettagliata del racconto, forse il disco parla anche di qualcos’altro, della necessità diffusa di esporre il privato, di una forma di condivisione che aspira ad annullare le distanze, della modalità contemporanea di intendere il collettivo.

Nel brano iniziale di Vulnicura Björk scopre subito le sue carte: Moments of clarity are so rare / I better document this: documentare tutto e condividere in tempo reale o quasi, in una bacheca musicale che riflette le pratiche comunicative dei social network. La cronistoria del disco e le dichiarazioni della cantante che ne hanno preceduto l’uscita sono essenziali, ci riportano con intenzione alla vicenda particolare. Altrimenti potremmo tranquillamente ignorare la relazione tra musica e vissuto.

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Qualche mese dopo è arrivato Carrie & Lowell, il nuovo disco di Sufjan Stevens. Anche qui regnano sovrani autobiografia e dolore, nel racconto del rapporto difficile del cantante con una madre assente e problematica. Una storia dura di abbandono e rimpianto, con una carrellata di memorie strazianti e un percorso faticoso di elaborazione del lutto dopo la morte di Carrie nel 2012. Since I was old enough to speak I’ve said it with alarm / Some part of me was lost in your sleeve / Where you hid your cigarettes / No I’ll never forget canta Stevens, e noi lo visualizziamo perfettamente: il bambino smarrito, l’adulto amareggiato. È un’esposizione totale e incondizionata della propria interiorità, una richiesta – o un’offerta – di vicinanza, resa ancora più vera da una registrazione casalinga, dove si sente addirittura il rumore del condizionatore. “Questo non è il mio progetto artistico”, dice Stevens, “è la mia vita”.

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Björk – o chi per lei – è molto attiva su Facebook, al contrario di Stevens che però lo è indirettamente attraverso la sua etichetta Asthmatic Kitty. Sta di fatto che la comunicazione individuale con gli ascoltatori non è più appannaggio della musica underground, del mondo delle nicchie e delle fanzine. È un’altra faccia, ormai inevitabile, dell’attività di un artista. La vicinanza che un tempo era affidata alle proiezioni più fantasiose o all’intermediazione della stampa, ora è spesso fatta di scambi diretti in cui il musicista deve rappresentarsi in maniera molto più personale. È lecito chiedersi se questi due dischi, in cui la dimensione catartica è senz’altro presente, siano anche il frutto di un posizionamento nuovo nella relazione tra le pop star e i loro fan; se il confronto su una piattaforma comune abbia incrinato il sistema di rappresentanza uno-molti a favore di una forza collettiva di cui l’artista è “amico”; se infine la tecnologia che continua ad agitare e trasformare la musica in termini di produzione e diffusione stia cambiando anche il modo di raccontare le storie.

Björk sarà all’Auditorium Parco della musica di Roma il 29 luglio prossimo; Sufjan Stevens sarà al Teatro della luna di Assago (MI) il 21 settembre.

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