15 luglio 2015 15:13

Per ora sono solo scommesse, e non è detto che le vinceremo. È ancora possibile che i due compromessi dell’estate 2015, quello greco e quello iraniano, si rivelino un fallimento. L’Iran, infatti, potrebbe usare lo sblocco dei suoi beni e i benefici del suo ritorno sui mercati internazionali per rafforzare l’asse sciita in Medio Oriente, alimentando lo scontro con i sunniti e provocando, un giorno, una guerra contro Israele attraverso Hezbollah. Esattamente quello che temono israeliani e sauditi.

Ed è possibile che le condizioni previste dal nuovo piano di aiuti per la Grecia la facciano sprofondare ulteriormente nella crisi, che la sua bancarotta sia imputabile all’eurozona e che questo alimenti un dissenso così forte tra gli europei da minacciare la sopravvivenza dell’Unione.

Queste ipotesi sono sfortunatamente plausibili, ma immaginiamo per un istante cosa sarebbe accaduto se non ci fossero stati il compromesso tra le grandi potenze e l’Iran e quello tra la Grecia e i suoi partner europei.

Gli Stati Uniti non avrebbero avuto altra scelta se non bombardare le strutture nucleari iraniane. La Repubblica islamica avrebbe risposto agli attacchi bloccando lo stretto di Ormuz, attraverso il quale transita un terzo degli scambi petroliferi internazionali. Tra crollo economico e guerra, il mondo sarebbe sprofondato rapidamente nel caos. Un fallimento della Grecia non più ipotetico ma immediato avrebbe invece trascinato i greci nella miseria mandando in pezzi l’Unione europea.

Lunedì e martedì, nel giro di ventiquattro ore, abbiamo dunque evitato uno scenario apocalittico, ed è in questo contesto che dobbiamo giudicare la bontà dei due compromessi. Solo analizzando gli scenari scongiurati grazie alla diplomazia possiamo capire come sarebbe il mondo senza il negoziato e senza l’arte di dare tempo al tempo. Ma ora che il peggio è passato, cosa dobbiamo pensare?

La situazione resta incerta, ma nulla ci vieta di credere che la scommessa iraniana e quella greca saranno vinte.

Se alla fine ha prevalso la ragione è perché Tsipras ha approfittato del referendum per avvicinarsi ai partiti d’opposizione

Cominciamo dall’Europa. Prima che Alexis Tsipras organizzasse il suo referendum, Angela Merkel aveva spesso sottolineato di essere disposta a credere, come François Hollande, che un leader nuovo il cui partito non è legato ad alcuna clientela potesse essere il modernizzatore di cui la Grecia ha tanto bisogno. Con il referendum la fiducia della cancelliera nella squadra di Tsipras si è decisamente ridotta, al punto tale che il suo ministro dell’economia voleva vincolare ogni nuovo aiuto alla delocalizzazione (in Lussemburgo…) del fondo delle privatizzazioni e forse anche a un diritto di veto dell’eurozona sulla nomina degli alti funzionari greci.

Avrebbe significato mettere sotto tutela la Grecia, ma se alla fine ha prevalso la ragione è perché Tsipras ha approfittato del referendum per avvicinarsi ai partiti d’opposizione e per far adottare al suo parlamento un piano di riforme sorprendentemente vicino alle richieste dei suoi partner dell’eurozona.

Superate le crisi di nervi, l’accordo concluso lunedì (grazie anche alla mediazione della Francia) certifica quella che era diventata una convergenza tra le parti. Questi sei mesi di braccio di ferro hanno permesso alla Grecia di ottenere 80 miliardi di nuovi aiuti per tre anni e soprattutto un impegno a ridiscutere un debito che il Fondo monetario internazionale ha invitato l’Europa a tagliare (e non solo ad allungarne le scadenze).

A questo punto non è impossibile che Tsipras diventi il grande modernizzatore su cui Hollande ha invitato Merkel a puntare, che la Grecia esca nel giro di una decina d’anni dalla crisi e che questi giorni di follia convincano Francia e Germania ad accelerare la lunga marcia verso l’unificazione politica dell’eurozona. Questa è l’ambizione manifestata lunedì da François Hollande, i cui collaboratori sono convinti che Parigi e Berlino potrebbero avviare un processo in questo senso entro l’autunno. Certo, ci saranno altri scontri e altri momenti di tensione, ma la Grecia e l’eurozona sono in una condizione migliore di quanto si temesse fino a qualche giorno fa.

Bastava vedere i sorrisi e i concerti di clacson per le strade di Teheran per capire cosa significa per gli iraniani l’accordo sul nucleare

Lo stesso si può dire dell’Iran. Martedì sera bastava vedere i sorrisi e i concerti di clacson per le strade di Teheran per capire cosa significa per gli iraniani l’accordo sul nucleare. Non solo sono sfuggiti alle sanzioni economiche e alla guerra, ma Hassan Rohani, l’uomo che avevano eletto in massa alla presidenza nel 2013 con la promessa di cancellare le sanzioni, ha mantenuto la sua promessa e ora la sua corrente ha tutte le probabilità di prevalere alle legislative dell’anno prossimo. L’Iran si avvicina a un’epoca di prudente liberalizzazione.

Bastione dello sciismo, la Repubblica islamica non rinuncerà ad appoggiare gli sciiti di Iraq, Siria, Yemen e Libano, e vorrà mantenere le sue posizioni di forza in questi paesi. Tuttavia, ora che il regime ha i mezzi per sopravvivere, per cambiare all’interno e per allearsi con gli occidentali contro i jihadisti dello Stato islamico, il suo interesse principale sarà quello di trovare un modus vivendi con gli stati sunniti e Israele per consolidare pacificamente i rapporti di forza creati con le armi. Ci vorrà più di un giorno, ma la scommessa di Barack Obama è fattibile come quella dell’Europa in Grecia.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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