13 settembre 2018 15:37

Domenica scorsa Stoccolma era sotto assedio. I mezzi d’informazione di tutto il mondo avevano preparato telecamere, microfoni e computer, pronti a raccontare la caduta di uno degli ultimi bastioni della democrazia social-liberale in Europa, forse il più illustre di tutti. Nessuno voleva perdersi lo spettacolo di un modello svedese che finalmente stava per crollare sotto il peso dell’immigrazione e del fallimento dell’integrazione.

Secondo le previsioni, i Socialdemocratici – al potere in Svezia per più di un secolo – sarebbero sprofondati come altri partiti della stessa area politica in molti paesi europei. Inoltre, i populisti di destra – quei Democratici svedesi che affondano le radici nella scena neonazista degli anni ottanta – sarebbero diventati la principale forza politica nel paese. O almeno questo era quello che si aspettava la folla di reporter e opinionisti. Ma non è accaduto niente di tutto questo. Il giorno del giudizio è stato rinviato. Alcuni giornalisti internazionali, parlando dei risultati elettorali, si sono attenuti alla sceneggiatura che avevano preparato, ma la verità è che il terremoto annunciato non c’è stato.

Anche se hanno registrato il peggior risultato elettorale della loro storia, i Socialdemocratici hanno conservato il 28,4 per cento dei voti in un paese dove in parlamento sono rappresentati otto partiti. Restano il primo partito, con quasi nove punti di vantaggio sul secondo, il Partito moderato (conservatore). Paragonato al tracollo del Partito socialista francese alle elezioni del 2017 o alla recente disfatta dei socialdemocratici tedeschi, il risultato del partito svedese non può certo essere definito un crollo totale.

I Democratici svedesi sono il terzo partito del paese, ma siamo lontani dalla rivoluzione attesa da molti

I Democratici svedesi, dal canto loro, si sono fermati ben prima del 20 per cento, lontani dagli obiettivi della vigilia. Incoraggiati da alcuni sondaggisti, che evidentemente avevano modificato i loro algoritmi per evitare di sottovalutare come in passato il voto populista, avevano sperato di diventare il primo partito nel paese. L’intento era quello di raddoppiare i voti rispetto alle ultime elezioni, come hanno fatto da quando Jimmie Åkesson è diventato il loro leader, nel 2005. E invece si sono fermati al 17,6 per cento dei voti, guadagnando appena il 4,7 rispetto al 2014.

I Democratici svedesi sono il terzo partito del paese e chiaramente i grandi vincitori delle elezioni, ma siamo molto lontani dalla rivoluzione attesa da molti, per non parlare dei commentatori che avevano ventilato la possibilità che i populisti riuscissero a “prendere il potere”.

Comunque, queste elezioni sono state storiche. Innanzitutto hanno confermato che oggi la Svezia è un paese come tutti gli altri in Europa e che la leadership politica deve trovare alla svelta una risposta alla domanda che da tempo tormenta molti governi europei: come comportarsi con i populisti euroscettici di destra? A partire da domenica scorsa, questa non è più una domanda teorica o tattica, ma riguarda la realpolitik e il governo di questo paese.

Al momento non è chiaro se la Svezia sceglierà la soluzione austriaca, con l’inclusione dei populisti nel governo o quantomeno nella maggioranza parlamentare che lo sostiene, come hanno fatto i cancellieri Wolfgang Schüssel e Sebastian Kurz; o quella tedesca, in cui i partiti vicini al centro hanno superato la divisione politica tra destra e sinistra governando insieme. Comunque vada, la strada intrapresa sarà determinante per la politica interna e per il ruolo del paese nell’Unione europea.

Quasi un terzo dei componenti del nuovo parlamento vorrebbe che la Svezia uscisse dall’Unione europea. Oltre al successo dei Democratici svedesi, che si descrivono come nazionalisti e social-conservatori, dalla parte opposta dello spettro politico, il Partito della sinistra ha sfiorato l’otto per cento, conquistando sette seggi in più rispetto alla scorsa legislatura. Gli euroscettici, insomma, sono i grandi vincitori di queste elezioni.

Fuori dallo stallo
Dopo il voto di domenica, il problema più urgente è uscire dallo stallo provocato dal sostanziale pareggio tra i due blocchi tradizionali. Da una parte abbiamo il Partito della sinistra, i Verdi e i Socialdemocratici, dall’altra l’Alleanza di centrodestra che comprende i Liberali, il Partito di centro, i Democratici cristiani e i Moderati, e nessuno dei due schieramenti può formare un governo senza un appoggio esterno. Tutti gli occhi, anche in questo caso, sono puntati sui Democratici svedesi, che potrebbero essere decisivi.

È una prospettiva possibile, anche perché la “politica dei blocchi” ha avuto un ruolo di primo piano in Svezia almeno dal 1945. Ma osservando più attentamente cosa è successo alla vigilia e dopo il voto, si può arrivare a una conclusione diversa. Forse non siamo davanti alla “sepoltura della politica dei blocchi” annunciata dal primo ministro socialdemocratico Stefan Löfvén. Al contrario, potremmo assistere alla formazione di un nuovo blocco di destra composto dai Democratici cristiani, dai Moderati e dai Democratici svedesi. In ogni caso sembra che a decidere davvero il futuro della politica svedese non saranno i partiti ai margini estremi dello spettro, ma le forze che stanno al centro, ovvero i Liberali e il Partito di centro.

Il rafforzamento del centro potrebbe essere la vera rivoluzione politica in Svezia, e magari segnare l’avvento di un nuovo modello. In tutta Europa ci sono molti politici che farebbero bene a riflettere su una massima di Theodor W. Adorno: “Il compito quasi impossibile è non lasciarsi accecare dal potere degli altri né dalla propria impotenza”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito su VoxEurop.

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