27 giugno 2016 18:27

“Il Museo palestinese apre, senza opere d’arte”, titolava qualche settimana fa il New York Times parlando dell’attesa apertura sulle colline di Bir Zeit, in Cisgiordania, del primo museo dedicato alla storia, alla cultura e alla società palestinesi. Il Washington Post rincarava la dose aggiungendo che “questo contribuisce a dare l’impressione che i palestinesi semplicemente non riescono a combinarne una giusta, e che hanno costruito un monumento vuoto”.

Il presidente del comitato di direzione del PalMuseum, Omar al Qattan, risponde a queste critiche con parole forti, accompagnate dal sorriso di chi ormai non si meraviglia più di niente: “Siamo rimasti alla triste realtà descritta da Edward Said: l’uomo bianco non riesce ad accettare che il colonizzato possa fare come il colonizzatore, se non addirittura meglio”.

Questa situazione è perfino più forte nell’“impero” americano che in Israele, sottolinea Al Qattan: “Mentre il New York Times ci distruggeva, il quotidiano israeliano Haaretz ha avuto parole buone per il nostro progetto”.

Prima di diventare presidente del comitato di direzione del museo, Omar Al Qattan è stato per 18 anni il manager della fondazione creata da suo padre, Abdel Mohsin Al Qattan, ricco uomo d’affari palestinese, rimasto sempre indipendente dall’Autorità Nazionale Palestinese, e amico di grandi intellettuali come Edward Said e Ibrahim Abu Lughod. La Qattan foundation è un’istituzione molto importante in Palestina, nota per i suoi progetti educativi e culturali rivolti in particolar modo ai bambini e ai giovani artisti. Di recente ha sostenuto il progetto Seeds bank, un’iniziativa nata per conservare le sementi palestinesi che stanno sparendo nel posto stesso dove ha avuto inizio l’agricoltura. La galleria d’arte londinese The mosaic rooms, sostenuta dalla fondazione, è un luogo di riferimento per la cultura araba contemporanea.

Quando si costruisce un monumento per ricordare un lutto bisogna capire che il lutto significa anche un nuovo inizio

Tuttavia, al di là delle polemiche “imperiali”, che cosa significa costruire un edificio così ambizioso in un territorio occupato militarmente?

Ci sono stati molti dubbi intorno alla sua costruzione: il suo costo – oltre 24 milioni di dollari – in una regione disastrata economicamente, la precaria situazione di sicurezza, il suo isolamento e di conseguenza la difficoltà di visitarlo. Ma per la ong Taawon, che ha promosso il progetto, l’importante era l’idea stessa di museo, di un luogo interamente dedicato al patrimonio culturale palestinese. La sua costruzione è stata inevitabilmente rallentata dalla decisione di non utilizzare nessun materiale israeliano, tenuto conto del fatto che tutte le merci che arrivano a Bir Zeit devono passare attraverso le dogane israeliane.

La nave ammiraglia

In origine l’idea alla base del progetto era quella di ricordare l’evento fondatore dell’identità palestinese contemporanea: la Nakba del 1948 (letteralmente “catastrofe”, l’esodo palestinese durante il primo conflitto arabo-israeliano) e l’appropriazione da parte di Israele di gran parte della Palestina storica. Per Omar al Qattan, però, questo richiamo al passato non era sufficiente: “Quando si costruisce un monumento per ricordare un lutto bisogna capire che il lutto significa anche un nuovo inizio. Con questo progetto abbiamo provato a celebrare il presente, analizzando con sguardo critico la società attuale”.

L’approccio è olistico e si propone di fare una sintesi tra antropologia, archeologia e arte moderna. Quest’impostazione concettuale deriva anche da un dato di fatto: “Quando non si è padroni del proprio destino, quando non si può contare su un museo nazionale preesistente, né su un patrimonio già raccolto” bisogna essere più creativi. L’edificio, realizzato degli architetti dello studio irlandese Heneghan Peng, è considerato la “nave ammiraglia”, le mostre promosse dal museo potranno essere realizzate anche altrove nel mondo, a immagine della diaspora palestinese: queste “collezioni satellite” saranno ospitate da altre istituzioni, più facilmente raggiungibili. La prima del genere è stata realizzata a maggio nello spazio Dar el Nimer, a Beirut, e proponeva una lettura politica della tradizione palestinese del ricamo, con una riflessione sul ruolo di quest’attività nel nazionalismo, nella resistenza e nell’identità palestinese.

Il progetto è completamente all’opposto delle follie narcisistiche che si possono trovare nel Golfo

La costruzione di musei colossali realizzati da archistar è diventata una specialità degli Emirati arabi e dei paesi del Golfo, con il Louvre Abu Dhabi realizzato da Jean Nouvel o il Guggenheim Abu Dhabi da Frank Gehry. In che cosa si differenzia il Museo palestinese da queste recenti costruzioni? “Il progetto è completamente all’opposto delle follie narcisistiche che si possono trovare nel Golfo”, spiega Al Qattan. “I regimi del Golfo sono dominati dall’occidente e fanno affari in questo modo. Il nostro progetto non è ostentato. L’edificio sembra essere uscito dalla terra, è circondato da coltivazioni di ulivi a terrazza e altra macchia mediterranea tipicamente palestinese”. I giardini, disegnati dalla paesaggista giordana Lara Zureikat, sono uno dei punti forti del museo, e diventeranno un modo per attrarre un pubblico non particolarmente interessato all’arte.

Al Qattan riconosce le difficoltà e i limiti del progetto: “Abbiamo ancora molto da fare per coinvolgere il pubblico intorno a noi, gli studenti dell’università vicina, le scuole, ma anche per costruire le nostre collezioni”. Su questo ultimo fronte, l’esistenza stessa del museo ha già aiutato: “Da alcune settimane, riceviamo molte proposte di donazioni. Siamo condizionati da una situazione politica e di sicurezza molto complicata. Ma non fa niente, ci costruiremo un po’ alla volta. Quando si è palestinesi basta essere aperti e ammettere gli errori – la scelta sbagliata del primo direttore, per esempio, o i ritardi nella costruzione – come qualunque istituzione democratica, per trasformarsi subito nel sintomo di un tracollo politico nazionale”.

Infine, una precisazione ai giornalisti del New York Times e del Washington Post: sulla cartella stampa del museo era scritto nero su bianco che “sfidando le convenzioni, il museo aprirà senza collezione. La prima mostra è invece prevista nell’ottobre del 2016”. Ciò che sorprende è quindi la loro sorpresa.

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