17 giugno 2022 16:44

Da quando il presidente Abdel Fattah al Sisi ha preso il potere, nel 2014, l’attivista egiziano Alaa Abdel Fattah ha trascorso la maggior parte del tempo in fasi alterne in prigione o agli arresti domiciliari.

È stato arrestato l’ultima volta a settembre del 2019 e a dicembre del 2021 è stato condannato a cinque anni di carcere per “aver diffuso notizie false” dopo aver condiviso un post su Facebook sulle violazioni dei diritti umani nelle carceri egiziane. Grazie alla solidarietà internazionale da parte di ricercatori e attivisti è stato pubblicato un suo libro, Non siete stati ancora sconfitti, che testimonia la forza intellettuale del pensiero di Abdel Fattah.

L’attivista il 1 aprile di quest’anno ha cominciato uno sciopero della fame.

Il 13 giugno, quando alla sua famiglia è stato permesso di fargli visita per venti minuti, si è detto pronto ad andare fino in fondo. In un tweet, sua sorella Mona Seif scrive: “Ci provo da giorni, ma faccio fatica a elaborare questo ricordo. La voce di Alaa, che mi grida con frustrazione e rabbia: ‘Devi abbandonare l’idea che mi salverai: morirò qui, concentrati su come fare in modo che la mia morte abbia un prezzo politico alto’”.

Se il suo stato di salute è preoccupante, il prezzo politico per lasciarlo morire in carcere non sembra per ora essere molto elevato per il regime di Al Sisi: malgrado il dinamismo della solidarietà civile internazionale nei suoi confronti, gli interventi del governo britannico e di quelli europei rimangono molto al di sotto delle aspettative.

La delusione nei confronti del governo britannico
Nel Regno Unito – Alaa ha ricevuto pochi mesi fa la cittadinanza britannica e dovrebbe quindi poter usufruire della protezione consolare di Londra – una lettera firmata da oltre mille celebrità e personalità culturali, tra cui Judi Dench, Riz Ahmed, Emma Thompson, Angela Davis e Stephen Fry, chiede alla ministra degli esteri Liz Truss di “usare il suo potere per garantire l’immediato rilascio di Alaa”.

La sorella minore di Alaa, Sanaa Seif, durante una conferenza stampa al parlamento britannico, nel 74° giorno di sciopero della fame, si è detta “profondamente perplessa dal modo in cui siamo stati trattati dal ministero degli esteri britannico”. Per Seif i funzionari britannici , con la loro immobilità, sono “perfino peggiori del governo egiziano”. Il regime del Cairo nega addirittura che il prigioniero faccia uno sciopero e il ministero dell’interno afferma che “mangia tre pasti al giorno”.

Per contrastare questa menzogna, Mona Seif ha deciso di cominciare anche lei uno sciopero della fame, almeno quello non potrà essere negato. Anche se, insiste: “Non mi interessa affatto il riconoscimento da parte del governo egiziano dello sciopero di Alaa o del mio. Il punto è che il corpo di Alaa non può essere nascosto in una cella lontana, isolata dal mondo e dalle persone”.

Colpevolmente silenziosi
Insieme a Mona, oltre 70 attivisti in Italia hanno organizzato su iniziativa di Amnesty international “un digiuno solidale di 24 ore a staffetta, per sostenere lo sciopero della fame di Alaa”. Per la giornalista e storica Paola Caridi, che insieme ad altri ha organizzato la campagna, “l’idea che sottende al digiuno solidale è quello di provare e condividere, almeno per 24 ore, la privazione del cibo come strumento contro la privazione della libertà”. Negli Stati Uniti, il Washington Post ha scritto un editoriale dichiarando che Joe Biden non “deve parlare ad Al Sisi senza parlare di Alaa”.

Ma davanti a questi appelli e iniziative i governi europei, a cominciare dall’Italia, rimangono vergognosamente silenziosi, o forse addirittura “colpevolmente silenziosi”, accusa il gruppo EgyptWide, che ha appena pubblicato un rapporto intitolato Complici ufficiali che denuncia la stretta collaborazione della polizia italiana con quella egiziana dal 2010 al 2020. Questo nonostante il caso Giulio Regeni e la crisi diplomatica che è seguita tra i due paesi.

La ricerca ha analizzato i dati presentati dal ministero dell’interno italiano sulle iniziative bilaterali e attesta “una progressiva proliferazione delle iniziative volte al rafforzamento delle capacità operative della polizia e degli apparati di sicurezza egiziani, che includono la fornitura di equipaggiamento di polizia e paramilitari a titolo gratuito, l’erogazione di corsi di formazione e addestramento, a cui si sommano numerose collaborazioni, scambi di esperti, conferenze e convegni, vertici bilaterali tra autorità di polizia”.

L’attuale ambiguità dell’Unione europea è ancora più preoccupante, dato che per non comprare gas russo – sottolineando giustamente la violazione dei princìpi di diritto internazionale – si chiudono gli occhi davanti alle terribili violazioni dei diritti umani dei paesi del Mediterraneo: un accordo a tre è stato firmato il 15 giugno al Cairo, spiega il sito egiziano indipendente Mada Masr, in presenza della presidente della commissione europea Ursula von der Leyen, del ministro dell’energia egiziano Tarek el Molla e della sua controparte israeliana Karen Harar. L’accordo consentirà di trasportare in Egitto il gas israeliano che poi, una volta liquefatto, partirà tramite navi cisterna per l’Europa. “Questo è un grande passo avanti nella fornitura di energia all’Europa”, ha detto Von der Leyen citata da Reuters dopo aver incontrato il presidente egiziano.

Per ora quindi, il famoso “prezzo politico” lo pagano solo i numerosi attivisti che si trovano dietro le sbarre in Egitto. La retorica sui diritti umani e sul diritto internazionale sbandierata dall’Unione europea per la crisi in Ucraina non ha evidentemente lo stesso valore per l’area del Mediterraneo.

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