21 febbraio 2015 20:31

Il Jobs act ora è partito davvero, ma sono almeno due le grandi incognite che ne determineranno il cammino e il suo eventuale arrivo a destinazione e si chiamano soldi e referendum.

Con l’approvazione ieri da parte del governo dei quattro decreti legislativi, diventano effettive le regole del mercato del lavoro ridisegnate dalla legge 10 dicembre 2014, numero 183.

Con enfasi semplificatoria il presidente del consiglio Matteo Renzi ha parlato di “rottamazione”, sia del precariato sia dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che prevedeva il reintegro dei licenziati sul posto di lavoro. Nei decreti ci sono, in realtà, numerose misure che vanno dall’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti al riordino degli ammortizzatori sociali con l’avvio di una nuova assicurazione per chi perde il lavoro (Naspi) e di un assegno di disoccupazione (Asdi) esteso anche ai futuri ex co.co.co. rimasti senza lavoro (Dis-Col).

Le reazioni contrarie al provvedimento continuano a essere veementi e si concentrano sia sul merito del provvedimento che sul suo percorso legislativo. Il fatto che il governo non abbia tenuto in considerazione il parere negativo, sebbene non vincolante, del parlamento sull’abolizione dell’articolo 18 per i licenziamenti collettivi ha suscitato anche le critiche della terza carica dello stato, la presidente della camera Laura Boldrini. A rompersi anche la fragile tregua interna al Partito democratico con l’ex viceministro all’economia, Stefano Fassina, che bolla il Jobs act come “una riforma degna della troika”.

È il principale dei sindacati italiani, la Cgil, a criticare più duramente il merito dei decreti del governo, a cominciare dall’indebolimento dell’articolo 18. Ed è dalla Fiom guidata da Maurizio Landini che arriva la prima delle incognite che il Jobs act si troverà probabilmente ad affrontare.

Il leader dei metalmeccanici, infatti, da molti indicato come l’unica possibile personalità in grado di costruire un’alternativa a Renzi da sinistra, nelle ultime ore è tornato con insistenza a riproporre l’idea di un referendum abrogativo delle nuove norme sul mercato del lavoro. È su una battaglia di questo genere, che non implicherebbe apertamente un impegno in politica, che si potrebbe coagulare il dissenso della sinistra sociale rappresentata ora da Landini. Ed è qui che potrebbero convergere sia le personalità politiche della maggioranza di governo che hanno contrastato il Jobs act, sia le diverse forze di opposizione, dal Movimento 5 stelle alla Lega nord.

La seconda incognita da sciogliere viene esposta senza troppi misteri dal fronte dei favorevoli al Jobs act. In questi mesi “giusta direzione” sembrava essere l’unanime commento sul provvedimento del governo da parte di Confindustria, Ocse, Fondo monetario internazionale e di molti esponenti politici moderati.

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Oggi l’editoriale in prima pagina del Sole 24 Ore spiega che per far “funzionare” il Jobs act, a regime, non bastano le regole ma occorrono soprattutto i fondi. Scrive Alberto Orioli:

Perché l’operazione funzioni ha bisogno di due sponde: quella delle regole da semplificare e da rendere più adatte alle forme del nuovo lavoro; e quella dei fondi pubblici, dote indispensabile per la gestione degli incentivi, delle forme di decontribuzione e delle misure di assistenza per chi perda il posto e si impegni in azioni di formazione e ricerca di nuove opportunità lavorative .

Insomma, che il Jobs act possa portare, dai prossimi mesi, a un aumento dei nuovi contratti a tempo indeterminato sembra essere un dato acquisito, anche da chi critica la riforma. Ma questo è legato soprattutto al forte sconto fiscale di cui beneficeranno, per i prossimi tre anni, le imprese che assumono. Per valutare la reale efficacia del Jobs act bisognerà aspettare la fine degli incentivi. Ma a quel punto il referendum, le elezioni o una differente congiuntura economica avranno già certamente mutato lo scenario politico.

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