18 maggio 2015 15:49
Una manifestazione a Berlino per la giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia, il 17 maggio 2015. (Gregor Fischer, Dpa/Afp)

Il 17 maggio è la giornata internazionale contro l’omofobia e contro la transfobia. Ci sono pure gli hashtag: #noomofobia e #notransfobia.

Tra gli slogan più ricorrenti ci sono:

Il diritto di essere felici.
Il diritto di amare (o la libertà di amare).
Il rispetto.
La dignità.

Suonano bene, ma sono contenitori vuoti, spesso superflui e a volte perfino irritanti quando arrivano da partiti e istituzioni. Se ci fossero uguali diritti per tutti, sarebbero poi le persone a decidere di essere felici, o almeno a provarci. Agli altri non dovrebbe interessare.

“Rispetto” e “dignità” poi sono concetti così ambigui che sarebbe meglio lasciarli stare (si veda Steven Pinker sulla seconda parola).

Restiamo in Italia, uno dei paesi più discriminatori in Europa, anche se nel mondo può andare molto peggio (prigione, pena di morte). In Italia alcune persone non hanno la possibilità di sposarsi, di adottare, di accedere alle tecniche riproduttive (la legge 40 restringe l’accesso alle coppie eterosessuali conviventi o sposate).

Se posso sposarmi, posso anche decidere di non farlo. Se non posso, subisco una discriminazione. E la subisco pure se non voglio sposarmi e se sarei infelice se lo facessi e se magari divorzierei dopo dieci mesi. Non sono affari degli altri. Non è tanto il diritto di essere felici che qui dovrebbe essere invocato, ma quello di essere uguali. Quello di avere le stesse possibilità, che potrebbero essere equamente poi sprecate o ignorate.

Dal Quirinale arriva un discorso formalmente ineccepibile: “Desidero incoraggiare quanti in questi anni si sono battuti e continuano a battersi contro ogni forma di discriminazione basata sull’orientamento sessuale delle persone”, si legge in un comunicato del presidente della repubblica Sergio Mattarella. “Le discriminazioni, le violenze morali e fisiche non sono solo una grave ferita ai singoli, ma offendono la libertà di tutti, insidiano la coesione sociale, limitano la crescita civile”, continua il comunicato e aggiunge: “Contro l’inciviltà delle discriminazioni e delle violenze molta strada è stata fatta, eppure il cammino è ancora lungo. È il cammino di una libertà come pieno sviluppo dei diritti civili, nella sfera sociale come in quella economica, nella sfera personale come in quella affettiva. Libertà anche come responsabilità”.

Un discorso ineccepibile e tuttavia insoddisfacente, come una tovaglia troppo piccola per un tavolo da trenta: tutti devono avere un pezzo di tovaglia, ma se ti sei seduto per ultimo mica ti puoi lamentare.“Uguaglianza”, “lotta alla discriminazione” e “libertà” sono espressioni vuote se rimane, per alcuni, l’impossibilità di compiere alcune scelte.

Continuo a parlare di “alcuni” perché forse sarebbe ora di smettere di connotare gli individui attraverso gli orientamenti sessuali, almeno quando parliamo dei diritti fondamentali. Ma sarebbe possibile farlo solo se davvero tutti avessero gli stessi diritti, mentre non è così, e allora bisogna continuare a dire che chi non è eterosessuale non ha gli stessi diritti di chi lo è.

Essere eterosessuale oppure no non dovrebbe interessare chi elargisce diritti. Per questo il rispetto proveniente da chi vuole mantenere una differenza nei diritti fondamentali suona, nella migliore delle ipotesi, ipocrita e consolatorio.

Se non fosse ancora chiaro: l’unico modo per dire davvero #noomofobia e #notransfobia è garantire l’uguaglianza dei diritti. Perché altrimenti ci troveremmo nella condizione schizofrenica di gridare tutti insieme “no al razzismo!” mantenendo però leggi che non permettono ai neri (o a un qualsiasi altro a piacere) di sposarsi e di adottare e di accedere alle tecnologie riproduttive. Sei nero, mica è colpa mia. Ci troveremmo a scrivere coloratissimi cartelli “no al sessismo!” negando alle donne l’accesso a certi lavori e agli uomini la possibilità di fare il bucato.

Se questo ci pare ridicolo, dovremmo giudicare allo stesso modo gli atteggiamenti “prudenti” di chi, per carità, mica è omofobo – ha innalzato pure un cartello – ma invita alla cautela quando si parla di famiglia e matrimonio e figli (l’adozione? È troppo presto!). Per non parlare di chi finisce per chiudere la questione pensando o chiedendoti: “Ma allora sei lesbica?”.

Come ha scritto Elton John pochi giorni fa sul Times (”Elton John: Billy Elliot’s dad does what mine never could”): “Mettere fine al pregiudizio contro le persone gay non rende libere soltanto loro. Rende liberi tutti”.

A fare le scritte o a innalzare cartelli sono buoni tutti, direbbe Corrado Guzzanti. A fare le leggi un po’ meno. Anche se l’uguaglianza è un concetto molto semplice. Alcuni ricordano che politicamente è inevitabile passare per tappe e per livelli di discriminazione sempre meno gravi: prima un accesso ridotto e poi uguale per tutti, prima le unioni civili e poi il matrimonio, prima la tutela dei figli di famiglie non riducibili a maschio più femmina e poi le adozioni. Ma le tappe richiedono un movimento, seppure lento e quasi invisibile a occhio nudo, e non una corsa sul posto.

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