02 maggio 2016 13:31

Virginia Raggi, Alfio Marchini, Roberto Giachetti, Giorgia Meloni: uno di questi quattro sarà il prossimo sindaco di Roma. Stefano Fassina e Francesco Storace non hanno nessuna possibilità di arrivare al ballottaggio, ed è probabile che convergeranno su uno di questi già prima. Secondo i sondaggi, i consensi dei quattro sono tutti compresi in una forbice tra il 20 e il 30 per cento dei votanti, il che vuol dire tra il 10 e il 15 per cento degli aventi diritto. Una grande quota dei romani probabilmente si asterrà; ed è chiaro dunque che il sindaco di Roma sarà l’espressione di una minoranza poco disposta a cercare un’approvazione più larga, a confrontarsi sui temi, ma molto intenzionata a smarcarsi dal resto degli altri politici e a lucrare consenso con toni demagogici.

Questa campagna elettorale per il Campidoglio – confusa, rabberciata, incolore, distratta, con tratti ridicoli (la candidatura di Bertolaso è stata credibile solo per le parodie sui social) – si è gonfiata di ogni refolo possibile di antipolitica e postdemocrazia, non lasciando emergere nel dibattito delle idee quasi nient’altro che formule retoriche vuote. Due più di altre: l’essere contro tutto e tutti, e l’amore per Roma in quanto Roma.

Giachetti cerca di cavalcare stancamente la rottamazione di Renzi e il presunto repulisti avvenuto nell’ultimo Pd, Marchini rimarca il suo essere libero dai partiti, Virginia Raggi non perde occasione per presentarsi come la rappresentante immacolata di una società civile pura e catartica, Giorgia Meloni è scatenata in una furia legalitaria contro la casta dei corrotti.

Si moltiplicano da una parte gli slogan tautologici. Roma torna Roma (Giachetti); Questa è Roma (Meloni); Roma sei tu (Bertolaso); Io amo Roma. E tu? (Marchini) che sono la versione ulteriormente impoverita dello slogan di Ignazio Marino Non è politica, è Roma. “Roma” è diventato chiaramente un segno vuoto che indica tutto e niente, ma che evoca nell’immaginario un’appartenenza simbolica quasi tribale – vedi Meloni che rivendica il suo accento romanaccio o Marchini che propone una settimana di celebrazioni per il natale di Roma.

Dall’altra parte la famigerata politica 2.0, screditando in ogni modo la democrazia rappresentativa, ha esaltato il feticcio della partecipazione trasformandolo nella sua misera caricatura. Da mesi i candidati – confessando implicitamente l’incapacità di presentarsi come guida, cancellando ogni identificazione personale e bramando una sorta di verginità politica– si dichiarano in ascolto della città (Marchini, Giachetti, Fassina), titillano gli elettori con slogan come Se vinco io, decidi tu (Raggi), chiamano a raccolta i sostenitori con l’invenzione di una campagna virale ridotta a giochino scemotto (Giachetti ispirato da Proforma). L’ambizione di mettere insieme un consenso non solo temporaneo, emotivo, ma capace di formare una costituency, si sta rivelando per tutti un fallimento.

Senza un programma

La battaglia ideale è ridotta a schermaglie di tweet, ad accuse infantili. Tutti si dichiarano candidati trasversali, che spesso è un altro modo di dire politicamente ondivaghi, e in definitiva inconsistenti.

Dall’altra parte latitano i programmi. I 101 punti di Alfio Marchini sono un pastrocchio di idee tra l’utopico e il velleitario, misure molto limitate su alcune delibere e genericissime opinioni.Virginia Raggi, come al solito per i Cinque stelle, riduce tutto a un elenchino che può stare in una paginetta: proclami assertori senza nessun merito per i processi di realizzazione. Il programma di Bertolaso (ritiratosi e “in panchina” per Marchini) prevedeva la balneazione del Tevere (sic!).

Giachetti non aveva presentato un programma vero e proprio per le primarie e – nonostante l’avesse promesso – non l’ha fatto dopo: le sue linee guida cercano di conciliare, spesso in maniera impossibile (altro che il “ma anche” veltroniano), lo spirito politico di un Walter Tocci con quello del renzismo: manutenzione e grandi eventi come le Olimpiadi del 2024. Giorgia Meloni se ne infischia di definire perfino una prospettiva politica e ogni giorno sovrappone polemiche nazionali a questioni cittadine, frecciatine contro il governo e Berlusconi a un’enfasi lepenista nemmeno ben rimasticata.

Un tema urgente e centrale come l’inclusione dei rom è trattato con la virulenza proporzionale all’acrimonia razzista che genera; la questione dell’accoglienza dei rifugiati e dei migranti è ignorata o sceverata con categorie inadeguatissime.

Nessuno si assume il compito di analizzare dei fenomeni di lungo periodo che hanno portato alla crisi di Roma

Ma manca anche, e molto, una diagnosi attenta della città, della sua storia recente. Se non ci si dimentica di gridare quanto Roma sia una città sull’orlo del baratro, nessuno però si assume il compito di analizzare dei fenomeni di lungo periodo che hanno portato alla crisi. Mafia capitale sembra essere stata una malattia esantematica causata da un virus di stagione.

Il problema della riduzione del gigantesco debito comunale (13 miliardi e passa di euro) sembra non riguardare il ripensamento di una città che si regge su un’economia della rendita; per capirci, oggi a Roma l’affitto medio per un appartamento è 900 euro a fronte di un reddito medio di 1.200 euro. E la stessa cosa vale per i trasporti, le infrastrutture, l’edilizia. O ancora di più per la cultura: le idee dei quattro candidati si fermano a pensierini lapalissiani, l’arte è importante, o a ideuzze da pubblicitari, la valorizzazione delle bellezze della Roma antica o poco più.

S’invoca l’onestà, la sicurezza, la trasparenza senza considerare come questi siano valori che scaturiscono da una politica capace di farsi pedagogia e di intervenire sui problemi strutturali. Non si è riusciti a coinvolgere gli intellettuali, l’associazionismo, i movimenti all’interno della campagna elettorale, provando a spostare il confronto su una prospettiva di lunga durata. Anzi, il commissariamento amministrativo con Tronca è valso come forma di sordina al dibattito politico: il protagonismo effimero dei retakers (gruppi di cittadini autoorganizzati) o di un sito come Roma fa schifo fanno il paio con il rischio di sgomberi dei pochi spazi di politica dal basso che hanno fatto da contrasto con una politica istituzionale sempre meno incisiva. La chiusura di quel teatro Valle, che per tre lunghi anni è stato – tra le molte altre cose – un piccolo parlamento cittadino, è più di un simbolo di quest’assenza.

Insomma il futuro di Roma è incertissimo, l’unica cosa sicura è che uno di questi quattro sarà il sindaco di Roma. E questa, da qualunque parte la si guardi, non è una bella notizia.

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