28 giugno 2016 12:53

Il 15 giugno, il tribunale di Torino ha condannato Roberta Chiroli, ex studentessa di antropologia di Ca’ Foscari, a due mesi di carcere con la condizionale ricondotta dai mezzi d’informazione ai contenuti della sua tesi di laurea intitolata Ora e sempre No Tav: identità e pratiche del movimento valsusino contro l’alta velocità.

La notizia ha ovviamente suscitato incredulità, scalpore e rabbia: secondo le ricostruzioni della difesa, le motivazioni della sentenza sarebbero da attribuire all’uso del “noi partecipativo” nella tesi di Roberta Chiroli, un “espediente narrativo” ricorrente nelle ricerche etnografiche in base al quale il ricercatore non nasconde il suo posizionamento ma lo esplicita, offrendo una narrazione situata nella quale rende visibile il suo sguardo.

Negli ultimi giorni un appello a favore della libertà di ricerca e di pensiero promosso del sito di Effimera è stato sottoscritto da circa duemila accademici e intellettuali. Il testo dell’appello interpreta la condanna come un “sintomo dell’accanimento contro chiunque osi raccontare quanto avviene in Val di Susa senza criminalizzare la determinazione di una comunità a lottare contro la devastazione del suolo, della salute dell’ambiente e del territorio”, e come “un inaccettabile atto intimidatorio contro la libertà di pensiero e la libertà di ricerca, ancor più grave in quanto portato avanti contro giovani studenti accusati di mettere troppa passione in ciò che fanno e minacciati di essere pesantemente sanzionati se prendono posizione, ‘partecipano’ o osano fare politica”.

Un nervo scoperto

Il 22 giugno il senatore Luigi Manconi ha depositato un’interrogazione parlamentare sulla questione seguito da un articolo su Huffington Post nel quale evidenzia come la pratica di portare nelle aule di un tribunale le parole di una tesi di laurea sia da considerarsi una violazione delle libertà personali, in questo caso la libertà di opinione e espressione. Nell’interrogazione Manconi pone alla ministra dell’istruzione un interrogativo nodale: come si può tutelare la piena libertà di ricerca nell’ambito dello studio e della formazione universitaria?

Questa è davvero una questione importante. Prescindendo dai fatti contestati – su cui c’è stata e ci sarà una battaglia giuridica – è evidente che la condanna di Roberta Chiroli abbia toccato un nervo scoperto nel dibattito culturale in Italia: cosa significa tutelare la libertà di ricerca?

Questa domanda, negli ultimi mesi, se la sono posta in molti, anche in seguito al dibattito etico e scientifico scaturito dalla morte di Giulio Regeni in Egitto. La tortura e l’omicidio di un ricercatore hanno dato rilievo a un discorso importante tra gli studiosi che a vario titolo usano l’osservazione partecipante come tecnica di ricerca sul campo. La questione nel suo aspetto più ampio è “come debba essere svolta” l’attività di ricerca, quali tipi di garanzie possano esserci per chi porta avanti questo tipo di lavoro e quali limiti la ricerca debba osservare.

Se Leonardo Sciascia fosse ancora vivo, rischierebbe di essere condannato per avere scritto di mafia

Da un lato c’è chi sostiene che il ricercatore possa essere tutelato limitando il campo della sua ricerca. Il lavoro di ricerca, in altre parole, dovrebbe essere scoraggiato in contesti delicati nei quali la persona “va a mettersi nei guai”: una delle narrazioni ricorrenti nel caso di Regeni. Si tratta di una retorica della sicurezza, che sottolinea l’importanza di proteggere l’individuo a costo di limitare l’impegno che questo svolge nel contesto sociale.

Ironicamente potremmo dire che si tratta di una retorica simile a quella che dice ai bambini di stare attenti a non scivolare quando camminano su un pavimento bagnato mentre l’edilizia scolastica cade a pezzi o suggerisce ai giovani studenti di non fare ricerca in val di Susa, a prescindere dalle potenziali conseguenze che possono derivare dalla costruzione di una linea ad alta velocità molto criticata.

La tutela del ricercatore, in altre parole, richiederebbe di limitare i confini della legittimità del suo lavoro.

A questa obiezione c’è chi risponde sottolineando l’“insostituibilità” della ricerca sul campo, anche in contesti difficili, con il solo vincolo che questa rispetti il codice deontologico della disciplina.

È la posizione di Marco Aime, che ha provocatoriamente sottolineato come, qualora la ricostruzione che i giornali hanno fornito del caso Chiroli fosse vera, ci troveremmo oggi in una situazione paradossale tale per cui, “se Leonardo Sciascia fosse ancora vivo, rischierebbe di essere condannato per avere scritto di mafia”, e gli antropologi che hanno raccontato la decolonizzazione in Africa e in Asia potrebbero essere considerati collusi in attività sovversive.

Di recente, l’Associazione nazionale universitaria degli antropologi culturali ha preso posizione su un altro caso: quello dell’antropologo Enzo Vinicio Alliegro, autore del volume Il Totem Nero. Petroli, sviluppo e conflitti in Basilicata, esprimendo “preoccupazione nei confronti della libertà di ricerca sul terreno da parte degli antropologi”.

La storia è piena di tentativi di filtrare le narrazioni legittime da quelle illegittime

“Nei giorni scorsi”, spiega il comunicato pubblicato sul sito dell’associazione, “la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi ha notificato al collega Alliegro, professore Associato del settore M-DEA/01 dell’Università Federico II di Napoli la chiusura delle indagini preliminari con informazione di garanzia in relazione alla sua partecipazione a una manifestazione. Alliegro, che sta facendo ricerca sui movimenti e i comitati locali di protesta contro l’abbattimento degli olivi (Xylella) era presente durante l’occupazione di una stazione ferroviaria promossa dal movimento”. La presenza del ricercatore sul campo in questo contesto, come spiega il comunicato di Anuac, costituisce “uno strumento di fondamentale rilevanza e del tutto insostituibile nella pratica del lavoro scientifico antropologico”, che si fonda precisamente sulla partecipazione.

La tecnica dell’osservazione partecipante sviluppata da Bronisław Malinowski, uno dei padri fondatori dell’antropologia, senza partecipazione semplicemente non si dà.

È frequente, nelle fasi di rapida trasformazione sociale, che le società ripensino i confini di competenza legittima dei saperi. Joel Mokyr – uno dei più importanti storici economici al mondo – scriveva che l’“analisi scettica dei saperi”, e cioè quel processo di valutazione e riesame dei valori tradizionali della società, è tipica di fasi di rapida trasformazione, laddove per consentire l’accettazione di complessi mutamenti sociali diventa necessario oscurare certe sensibilità e legittimarne altre.

La storia è piena di esempi di questo tipo, di tentativi di filtrare le narrazioni legittime da quelle illegittime. Ma a chi spetta tale selezione?

Ha fatto bene il senatore Manconi a porre la questione al ministro dell’istruzione come è giusto che le associazioni disciplinari rivendichino la propria autonomia, nel rispetto del codice deontologico. Nel frattempo, per i firmatari dell’appello per la libertà di pensiero la risposta è chiara: la ricerca si valuta nelle università, non nei tribunali.

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