15 giugno 2021 17:16

Parte della mia vita si è basata sulla demistificazione di cosa sia la musica italiana all’estero: in una famiglia a Brooklyn in cui tutti ascoltavano Mario Merola e Nino D’Angelo, era importante litigare e parlare di Franco Battiato o degli Afterhours.

Una prima forma di tregua è stata raggiunta quando un parente mi ha mandato il video di un food truck a Tribeca in cui un paninaro stava ascoltando Liberato. C’erano la melodia e il dialetto, ma pure la “cosa nuova”; potevamo fare pace. Guardando il video, mi piaceva l’idea di una canzone italiana che entrava nei suoni della città, che aveva una vita spontanea e pubblica: non era l’esecuzione di un neomelodico finito ad Atlantic City, né un artista oscuro dell’avanguardia romana da sentire al Café OTO a Londra, ma un brano ballabile, capace di contenere le forme della tradizione italiana in maniera larga, reinventandola appena.

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Allora perché quando ho sentito Zitti e buoni dei Måneskin in un negozio di Berlino sparata a tutto volume dai commessi ho cercato di nascondermi dietro gli scaffali? Li ho spiati senza fare domande o tradirmi, pensando che probabilmente soffrivano di nostalgia per le unghie smaltate di nero a scuola e il crossover e i primi fuck you scritti sullo zaino e tutto ciò che dopo la morte di Cobain è diventato il rock, e cioè una lentissima discesa in un pantheon di miti ridicoli. Il mio disagio non aveva niente a che fare né con la lingua in cui cantavano né con l’idea della musica che dovremmo proporre all’estero: aveva a che fare con l’adolescenza, e tutto il sudore alieno che emana.

Questo articolo è uscito sul numero 1413 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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