18 agosto 2020 15:43

Provate a immaginare lo sconcerto di un fan di James Brown che nel 1971 tornava dal negozio di dischi con Sho is funky down here in uno di quei bei sacchetti di carta marrone che si usavano allora. Il titolo prometteva bene: “Certo che è funky quaggiù”, ma appena la puntina toccava il disco il malcapitato fan anni settanta capiva che non era il solito album del “padrino del soul”.

Anzitutto di soul non ce n’è proprio: Sho is funky down here è un album interamente strumentale con tante chitarre distorte e una batteria lontanissima, registrata decisamente male, almeno secondo gli standard produttivi della James Brown Band. All’epoca poteva sembrare un disco particolarmente fuori di testa dei Parliament-Funkadelic o una lunga jam session della band di Sly Stone. L’unica cosa che poteva lontanamente ricordare James Brown era il suo stile inconfondibile al piano elettrico. Eppure il titolo non mente: ci sarà poco soul ma, dietro la cortina di wah-wah e distorsioni, c’è un inconfondibile basso funk che macina lento e inesorabile.

Sho is funky down here è un album di James Brown poco amato e poco ricordato, ma che cercava di fare con il funk e con il soul quello che Miles Davis stava facendo con il jazz: ibridarlo con il rock e la psichedelia. Era il capriccio di una star che poteva permettersi tutto o una sperimentazione coraggiosa che avrebbe aperto la strada a gente come Rick James e Prince? Forse, come al solito, la verità sta nel mezzo.

James Brown
Sho is funky down here
King/Universal, 1971

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