28 dicembre 2021 11:30

Di tanto in tanto la parola rock torna di moda in Italia. “Il fottuto vock” come direbbe il comico Valerio Lundini, mimando il gesto delle corna. Nel 2021 se n’è riparlato, tanto, a causa di una band romana, i Måneskin, che ha vinto il Festival di Sanremo e l’Eurovision song contest, ha aperto i concerti dei Rolling Stones a Las Vegas e infine si è aggiudicata anche gli European music awards di Mtv.

Il 1 dicembre la piattaforma di streaming Spotify ha mandato ai suoi utenti un dettagliatissimo resoconto dei loro ascolti annuali. Talmente dettagliato da sfiorare il dossier di una Spectre della sorveglianza digitale. Ebbene, in quella massa di dati spicca una novità: i Måneskin sono stati gli artisti del nostro paese più ascoltati del mondo, con due miliardi di stream e la posizione 58 della classifica globale.

Tradotto, sono riusciti a diventare i primi artisti italiani veramente globali. Sono diventati per l’Italia qualcosa di simile a quello che per la Svezia sono stati, e continuano a essere, gli Abba: un marchio di fabbrica capito, apprezzato e venduto ovunque. Perché essere globali non significa solo avere successo all’estero. In questo senso, solo per fare qualche nome, Rita Pavone, Gigliola Cinquetti, Toto Cutugno, Al Bano e Romina e Laura Pausini ne hanno avuto, di successo all’estero, eccome. Ma hanno sempre rappresentato una nicchia di italianità prima e di generica latinità poi. Per i Måneskin invece la provenienza geografica non è mai stata identitaria: la loro italianità è al massimo presentata come una sfumatura in più del loro sex appeal.

A chi non segue il pop sembrano usciti dal nulla: una band nata al liceo che nel 2017 ha partecipato a X Factor e, una volta fuori, pur non avendo vinto ha fatto il botto. Non hanno nessun legame con la dinastia del rock italiano, ricordano diverse cose già sentite senza fare direttamente riferimento a nessuna, cantano in inglese e in italiano senza porsi troppi problemi. E la loro doppia esibizione alla finale di X Factor 2021 ha schiacciato quella dei Coldplay, che al confronto sembravano stempiati impiegatucci del rock.

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Davanti a una tale infilata di successi, i puristi sono insorti indignati: i Måneskin non sono rock, sono fasulli, sono una parodia, vengono dai talent, li veste Gucci. “Il vero rock è un’altra cosa”, ripetono le vestali dell’autenticità, che spesso sono uomini di mezza età che nella vita hanno comprato la discografia dei Pink Floyd tre volte; prima in vinile, poi in cd e poi di nuovo in vinile, per le ristampe da 180 grammi.

Ma quello che dimenticano gli indignati è che un tempo sono stati giovani anche loro, e che il loro rock faceva schifo agli adulti quanto a loro fanno schifo i Måneskin. L’importanza storica del rock, infatti, è stata proprio quella di aver creato una spaccatura tra i cosiddetti baby boomer e la generazione precedente. Prima della seconda guerra mondiale i giovani come categoria sociale e come segmento di mercato non esistevano: l’adolescenza era considerata un’irrilevante e improduttiva intercapedine tra l’infanzia e l’età adulta.

Nell’immediato dopoguerra, più o meno dieci anni prima che la parola rock fosse coniata, Frank Sinatra vendeva dieci milioni di dischi ogni anno e, grazie alla tecnologia dell’amplificazione elettrica della voce, aveva inventato insieme a Bing Crosby il crooning. Era un nuovo modo di cantare canzoni sentimentali in locali grandi e affollati: una sorta di intimità aumentata dal microfono che permetteva al pubblico, soprattutto alle ragazze, di assieparsi sotto al palco e gridare all’artista tutto il proprio amore. Negli Stati Uniti, a metà degli anni quaranta, si è visto per la prima volta il delirio dei fan, il piangere ai concerti, lo strapparsi letteralmente le vesti di dosso per un cantante. Frank Sinatra cominciò a essere noto come “Swoonatra”, l’uomo che faceva venire meno (swoon) le sue ascoltatrici. E i giornali più conservatori, come ricorda Simon Napier-Bell in Ta-ra-ra-boom-de-ay, una storia esaustiva della musica popolare americana, chiamavano le fan di Sinatra “teenage delinquents”, delinquenti giovanili, per la loro sfacciata irrequietezza sessuale.

Sesso, ribellione e mercificazione sono caratteristiche del rock’n’roll fin dalle origini; parlare di autenticità è fuorviante

Le sorelle e i fratelli più piccoli delle “bobby soxers”, le ragazze che svenivano per Sinatra, così chiamate per i calzini corti che portavano, erano pronti a mettere a dura prova il perbenismo dei genitori a metà degli anni cinquanta: “Delinquenza e marketing per teenager hanno trovato un punto d’incontro nel 1954, quando Bill Haley interpretò Shake, rattle and roll di Joe Turner”, scrive Napier-Bell. “La versione di Haley è stato il primo pezzo di rock’n’roll bianco mai realizzato, una fusione tra il blues osceno di Joe Turner, gli accenti del country e lo shuffle dei neri”. Il rock quindi è nato per incanalare la ribellione giovanile e trasformarla in merce.

Quel senso di minaccia all’ordine precostituito degli adulti, ovviamente bianchi, arrivava anche dal sapiente saccheggio di elementi tipici della musica afroamericana, percepita dai pudibondi genitori degli anni cinquanta come particolarmente sconveniente e sovversiva. Sesso, ribellione, delinquenza e mercificazione sono caratteristiche del rock’n’roll fin dalle origini; parlare di autenticità quando si parla di rock è dunque fuorviante oltre che molto noioso.

In Italia perché gli adulti si accorgano dell’esistenza del rock bisognerà aspettare la notte del 18 maggio 1957, quando al palazzo del ghiaccio di Milano, nella periferia est della città, si esibirono Adriano Celentano e il campione di ballo Bruno Dossena nel “primo festival del rock’n’roll italiano”. Animatore della serata il comico e ballerino Jack La Cayenne, detto Torquato il molleggiato, un soprannome che poi sarebbe passato al più famoso Celentano. Ci fu una gran folla e un problema di ordine pubblico, con scontri tra la polizia e i ragazzi che erano arrivati lì non solo dalla periferia milanese ma da tutta la Lombardia. Le forze dell’ordine sparsero la voce che il concerto era stato annullato e buona parte della folla che premeva contro i cancelli si disperse. L’evento si tenne lo stesso ma più tardi e la giornalista Natalia Aspesi, che si occupava di costume e società per il quotidiano La Notte, era lì.

“Più di una volta la situazione sembrò decisamente pericolosa”, scriveva, “la sala del palazzo del ghiaccio, sotto le luci al neon annebbiate dal polverone sollevato dagli irrequieti piedi giovanili, si presentava come una palestra di boxe al decimo round. […] Quando Adriano Celentano & His Rock Boys ebbero il sopravvento sul presentatore e sull’urlo della folla, fu chiaro che neppure l’intervento della celere e dei carabinieri presenti avrebbe permesso ad altri di suonare”. Gli ingredienti esplosivi del rock sono gli stessi nell’Italia del boom come negli Stati Uniti dei primi anni cinquanta: ribellione giovanile (dipinta dalla stampa come delinquenza di periferia), ormoni a mille e una musica primitiva e rumorosa associata a un ballo che gli adulti non capiscono.

Solo un paio di anni dopo Adriano Celentano fu chiamato da Federico Fellini per suonare e ballare in una scena memorabile della Dolce Vita. Nel 1960, lo stesso anno in cui uscì la Dolce vita, Celentano era al cinema con un altro film, il musicarello Urlatori alla sbarra di Lucio Fulci, con Mina, Joe Sentieri e Chet Baker nel ruolo di Chet l’americano. Urlatori alla sbarra, che già dal titolo prometteva al pubblico emozioni forti, metteva in scena tutto quello che alla stampa faceva paura del rock’n’roll: blue jeans, bottiglie rotte, promiscuità, teppismo e bande di teddy boys. E così i teenager, con qualche anno di ritardo rispetto agli Stati Uniti, irrompono anche nei media italiani, ribelli, in perenne scontro con gli adulti ma soprattutto sessualmente attivi e consapevoli.

I Måneskin nel 2021 non hanno fatto che resuscitare, per l’ennesima volta nella storia recente, il fantasma del rock’n’roll (e della frattura generazionale che si porta dietro) che ogni dieci o vent’anni viene dato per morto. Non ci sono più i juke box ma c’è Spotify, la loro ribellione sessuale è rifiuto e sovvertimento degli stereotipi di genere ma il carburante che li fa volare è sempre lo stesso: fisicità, sudore, ormoni a mille e rock.

E il fatto che adulti e censori scuotano la testa è assolutamente naturale, anzi, è il segno che loro stanno facendo tutte le cose giuste. La musica dei Måneskin è derivativa? Fasulla? Scopiazzata? La risposta a questo falso problema la dava Pete Townshend degli Who già nel 1968: “È come dire prendiamo tutta la musica pop, infiliamola in una cartuccia, chiudiamola e diamo fuoco alle polveri. Non consideriamo il fatto che quei dieci o quindici pezzi siano tutti simili. Non importa in che periodo sono stati scritti o di che parlano. È l’esplosione che creano quando premi il grilletto a fare la differenza. È l’atto in sé. Ecco cos’è il rock’n’roll”.

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