17 gennaio 2023 16:55

Il sentire comune riguardo a Rudebox, il settimo album di Robbie Williams, trapela della sua biografia Reveal, scritta nel 2017 dal giornalista britannico Chris Heath che ha passato un lungo periodo con lui e la sua famiglia. Un giorno Williams nella sua casa di Los Angeles (città in cui ha scelto di abitare dal 2006) si lamenta con la moglie (l’attrice Ayda Fields) del fatto che la loro bambina lo stava respingendo. La moglie gli risponde fulminea: “Forse ha sentito Rudebox”.

Rudebox arrivava dopo una serie di successi che, sorprendentemente, avevano visto l’ex Take That di Stoke on Trent diventare, nel Regno Unito, una pop star di prima grandezza tra la fine degli anni novanta e i primi duemila. Fino a Rudebox sembrava che nulla potesse fermare Robbie e lui, che non ha mai nascosto la sua indole paranoica e psicologicamente fragile, sapeva che il momento del crollo sarebbe arrivato presto. Anzi, quasi lo aspettava con trepidazione.

Come un principe Harry proletario, anche Robbie Williams è cresciuto sotto lo scrutinio e il giudizio della stampa scandalistica britannica. A differenza di Harry però non aveva una famiglia reale a cui addossare tutte le colpe: sua madre gestiva un pub al piano inferiore della loro casa e lui aveva solo avuto la fortuna di essere pescato a un’audizione che lo avrebbe reso parte di una delle boy band più famose del mondo.

A differenza di Harry, Robbie ha solo se stesso da incolpare per la sua vita incasinata e i due libri con Chris Heath (Feel e il già citato Reveal) sono il trionfo dell’arte molto britannica dell’autoflagellazione. Se il principe Harry nel suo libro cerca di uscirne bene (la colpa è sempre degli altri: dei tabloid, del padre, della nonna, della corona inglese fino a Enrico VIII), Robbie sembra dire, in ogni riga dei sue due libri, eccolo qua quel coglione del Take That, l’alcolista, il falso magro, l’incapace, la star che ogni sera, prima di andare in scena, sa che quella sarà la volta buona in cui un attacco di panico stroncherà la sua carriera. Robbie Williams è irresistibile perché mette in gioco le sue fragilità e perché quella che porta sul palco è la caricatura, a volte molto divertente a volte un po’ tragica, di una pop star.

Robbie Williams ha sempre avuto bisogno di un partner per dare il suo meglio. Nei suoi due libri è stato Chris Heath (già brillante biografo dei Pet Shop Boys) e nei suoi album più famosi e più amati è stato il musicista, autore e produttore Guy Chambers, che con lui ha realizzato pezzi di grande successo come Angels, Let me entertain you, Millennium e Rock dj. Basta ascoltare Feel, forse la canzone migliore dell’intera carriera di Williams, per capire a che livello d’intimità, sia artistica sia umana, erano arrivati i due lavorando insieme. Con Feel Chambers ha confezionato una canzone che solo Robbie poteva cantare. La decisione di Williams di separarsi da Guy Chambers può essere descritta solo come un autosabotaggio.

E infatti Rudebox, uscito poco dopo il non certo entusiasmante Intensive care (il suo primo album senza Chambers) è un disco ridicolo, imbarazzante, ma anche esaltante e folle proprio perché vede Robbie camminare sul filo senza rete. Ogni scelta, anche di produzione, di questo album è pericolosamente in bilico tra il geniale e il grottesco. Quando esce il primo singolo, Rudebox, una produzione del duo Soul Mekanik che mescolava in modo astuto (e molto Pharrelliano) funk, hip hop ed electro old school, nel Regno Unito per Robbie Williams arrivano finalmente le stroncature che la parte più distruttiva di sé stava aspettando. Il tabloid The Sun non esita a definirla la canzone più brutta mai sentita e, a cascata, tutti i mezzi d’informazione giocano al tiro a segno sulla nuova immagine hip hop del cantante che, maldestramente, si era messo in testa di rappare.

Il video, girato dal fotografo di moda francese Sei Janiak non lo aiuta: Robbie, in tuta Adidas e con la faccia di uno che ha dormito troppo poco, sembra più uscito da Little Britain che da una crew di b-boy.

Il singolo è un fiasco ovunque tranne che in alcuni paesi forse meno avvezzi alla cultura hip hop e meno interessati alla canzone pop come oggetto dotato di un suo senso: Germania, Svizzera, Turchia e, ovviamente, Italia. Peccato perché musicalmente, come citazione manierista e manierata delle produzioni di Pharrell Williams, è anche carino.

Robbie Williams, Rudebox, 2006

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Con il senno di poi è chiaro che se Robbie e i suoi discografici (leggenda vuole che due pezzi grossi della Emi persero il posto per colpa dell’insuccesso di Rudebox) avessero scelto un altro singolo per lanciare l’album le cose sarebbero andate forse un po’ meglio. Però il conto alla rovescia per l’autodistruzione pubblica di Robbie Williams era già partito e non c’era più niente da fare.

Qualcuno potrebbe chiedersi: ma non aveva un amico a cui chiedere un parere? Evidentemente no ma, attenzione, è proprio questo che rende Rudebox un atto di autosabotaggio così esaltante. Viviamo in tempi talmente addomesticati, in cui ogni scelta (anche quella d’indossare un paio di calzini) viene fatta in nome del marketing, della reputation e dell’engagement, che lo spettacolo di una grande pop star che manda all’aria tutto non può non essere memorabile. E Rudebox, che piaccia no, è un album memorabile e l’unico della discografia di Williams su cui torno insistentemente.

Il memo per la produzione doveva essere: Robbie Williams e il suo amore per gli anni ottanta, dall’hip hop old school al synth pop britannico. Una star matura, una gloria nazionale forse appena appannata, che gioca con i suoni che lo esaltavano da ragazzino, quando andava a scuola in autobus col Walkman nelle orecchie. Sulla carta tutto molto carino: allora perché il secondo pezzo dell’album (Viva life on Mars) è una sorta di pasticcio country western nascosto dietro un titolo che può vagamente ricordare Bowie o Elvis a seconda da dove lo si guarda? Viva life on Mars è una canzone talmente assurda che non ci si rende conto del verso che la apre: “Ho perso ogni fiducia in ciò che so / Il futuro non ha bisogno di me”. Tipico di Robbie Williams: travestirsi da cowboy per dirti, con un ghigno dei suoi, che ha capito benissimo che il mondo è pronto a fare a meno di lui.

L’amarezza è spazzata via da un singolo magistrale, la sua versione di Lovelight di Lewis Taylor prodotta da Mark Ronson, che di lì a poco avrebbe lavorato con Amy Winehouse sul suo ultimo capolavoro, Back to black. L’originale, cantato e prodotto pochi anni prima dallo sfuggente Lewis Taylor, era praticamente sconosciuto, quindi il pezzo è a tutti gli effetti una hit di Robbie Williams. Lovelight comincia con un suono edm per trasformarsi in qualcosa che all’inizio ricorda i Bee Gees ma poi getta la maschera e si rivela un’astuta parafrasi degli Scissor Sisters. Lovelight rimane tutt’ora uno dei pezzi pop migliori del 2006. La ragione per cui la Emi abbia scelto Rudebox come primo singolo dell’album rimane ancora un mistero come i cerchi nel grano o il triangolo delle Bermude.

Finisce Lovelight e ci ritroviamo di nuovo a chiederci se Robbie abbia o no un amico. Solo un genio del male può pensare che nel 2006 una cover di Bongo bong di Manu Chao (con Lily Allen ai cori) possa essere una buona idea. Robbie non si cura dell’appropriazione culturale (nel 2006 non se ne parlava ancora) e neanche del senso del ridicolo.

Robbie Williams, She’s Madonna, 2006

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

She’s Madonna, scritta e prodotta dai Pet Shop Boys, è invece un’altra storia. Neil Tennant e Chris Lowe sono dei maestri nello scrivere per gli altri e nell’azzeccare tutti i riferimenti alla cultura pop del momento. Questa canzone, che parla di un narratore che molla la sua ragazza per un’avventura con Madonna, è il ritratto sia di Robbie (pop star un po’ smargiassa con evidenti turbe dell’affettività) sia della Madonna dei primi anni 2000, la signora Ritchie al massimo del suo sex appeal maturo, con messa in piega da signora bene e body da aerobica. Nel ritornello Robbie canta alla sua ragazza: “Ti amo tesoro ma rassegnati, lei è Madonna”, scivolando felice nel ruolo del toy boy tra le braccia di una donna adulta, ricca e potente. La canzone piacque a tutti, anche alla stessa Madonna che la trovò divertente.

Per aggiungere livelli di lettura, nel video Robbie appare vestito da donna (volutamente più stile Legnanesi che RuPaul drag race) e parla con un giornalista delle sue personalità multiple prima di rivestirsi da uomo e cantare la sua canzone di fronte a un pubblico annoiato di sole drag queen. La capacità di Robbie di giocare con certi aspetti della cultura gay (il fandom di Madonna, il travestitismo) senza mai cadere nel queer baiting (che in verità nel 2006 non si sapeva ancora bene cosa fosse), è magistrale. Non dimentichiamoci mai che Robbie Williams è l’uomo che, insieme al fido Guy Chambers, nel 2000 scrisse per Kylie Minogue Your disco needs you, un pezzo che la Emi preferì non far uscire come singolo nel Regno Unito perché “troppo gay” e “troppo camp”. Troppo gay per Kylie! Rendiamoci conto.

Dopo l’intermezzo di The actor, un pezzo electro sui luoghi comuni di chi vive a Hollywood, entriamo nel cuore di Rudebox, in quello che forse doveva essere l’album nelle intenzioni iniziali: un viaggio onirico e malinconico nel synthpop degli anni ottanta.

Louise è la sorprendente cover di una ballad degli Human League originariamente uscita nel 1984. Il pezzo è prodotto da William Orbit (già produttore di Ray of light di Madonna) che, pur rimanendo molto rispettoso dell’originale, gli dà una morbidezza ambient impensabile con i synth dei primi anni ottanta. Louise parla di un amore finito, dell’incontro casuale tra due innamorati che si rivedono e che solo alla fine, quando lei è già sull’autobus per andare via, si sorridono “come fossero ancora amanti”. Robbie non riesce a non essere Robbie e la canta imitando Phil Oakey (il cantante degli Human League) che a sua volta imitava Bryan Ferry. Una mise en abyme troppo bella per essere evitata. Eppure, quando arriva alla parte parlata che dice: “Non è sempre vero che il tempo guarisce le ferite. Ci sono ferite che non vuoi curare: i ricordi di qualcosa di molto bello”, Robbie torna a essere lui, con il pesante accento di Manchester e una sincerità che non importa se sia simulata o meno.

Louise ti spezza il cuore ma le cose diventano davvero strane quando il pezzo scivola lentamente in un’altra cover synth pop, stavolta davvero bizzarra e decisamente “meta”: We’re the Pet Shop Boys. Il duo britannico ricompare in Rudebox,ma stavolta come presenza fittizia all’interno di una canzone-omaggio scritta dal dj e produttore newyorchese My Robot Friend. La canzone è una sorta di b-side gay di Louise: due uomini si incontrano dopo tanti anni, si toccano e per loro è improvvisamente di nuovo il 1984. Si suggerisce che da ragazzi fossero stati inseparabili, che abbiano avuto una storia e ritrovandosi si dicano “Noi siamo i Pet Shop Boys”. La canzone riesce a essere camp (piena di riferimenti da fan alla discografia del duo), ma allo stesso genuinamente sentimentale.

È proprio nell’accoppiata di due cover come Louise e We’re the Pet Shop Boys, la chiave di lettura di quello che sarebbe potuto essere Rudebox se Robbie Williams non fosse stato il primo nemico di se stesso: il synth pop britannico degli anni ottanta come età dell’oro, come nostalgia di una giovinezza mai vissuta. È divertente pensare che nel 1984 (l’anno di Louise e l’anno a cui si richiama We are the Pet Shop Boys) Robbie Williams aveva solo dieci anni. Il senso, molto ben nascosto, di Rudebox è una retromania malinconica e, per quanto artificiosa, molto autentica. Come sa esserlo solo il grande pop.

Dopo una cover abbastanza inutile (Kiss me che il suo nuovo collaboratore Stephen Duffy portò al successo negli anni ottanta con il nome di Tin Tin) e una suite di canzoni introspettive (The 80’s, più tenera e malinconica, e The 90’s, più ironica e abrasiva), Rudebox arriva faticosamente alla fine, concludendosi, in perfetto stile Robbie Williams, con una traccia nascosta intitolata Dickhead (“Testa di cazzo”, ma nel senso più ampio che noi in italiano diamo alla parola “coglione”). Robbie Williams chiude un album difficile ma pieno di gemme ben nascoste con una postilla che sembra dire: “Avete visto che coglione?”.

Robbie Williams
Rudebox
Emi, 2006

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it