07 febbraio 2023 15:01

Questa rubrica da quasi tre anni è dedicata esclusivamente agli album perché, come diceva il povero Prince, “albums still matter”, gli album sono ancora importanti. Sono più convinto che mai che lo siano ma per questa settimana farò un’eccezione e parlerò di un 45 giri, un piccolo disco di vinile del diametro di 18 centimetri che al prezzo di duemila lire nel 1981 poteva essere acquistato anche da un bambino di 11 anni. Come me, che dovetti mettere insieme due paghette settimanali.

Il 1981 è stato l’anno in cui ho visto per la prima volta per intero il festival di Sanremo. Negli anni settanta era considerato un ferrovecchio e su Rai Uno (che allora chiamavamo il primo canale) mandavano solo la serata finale. Ho vaghi ricordi delle edizioni precedenti: sicuramente mi avevano colpito Anna Oxa travestita da ragazzo punk-wave nel 1978 e una Donatella Rettore esordiente che lanciava caramelle sul pubblico nel 1977. Erano gli anni di piombo anche per noi bambini e le poche trasmissioni musicali a cui eravamo esposti (sempre sia lodato Discoring) ci aprivano uno squarcio di modernità al neon e di allegra trasgressione. Per rispondere a chi nel 2023 grida al pericolo gender a Sanremo (qualunque cosa sia) posso assicurare che per un bambino di quegli anni Oxa vestita da ragazzo e Amanda Lear strega-dominatrix nel varietà serale Stryx erano presenze rassicuranti e amiche come i cartoni di Supergulp! e Miss Piggy del Muppet show.

Nel 1981 Sanremo aveva ricominciato a essere rilevante per il pubblico più giovane, un po’ come è successo per le ultime due edizioni. La sigla del festival era la grande hit pop-dance di quell’anno, Gioca-Jouer di Claudio Cecchetto che, insieme a Eleonora Vallone e alla veterana della canzone italiana Nilla Pizzi, presentava il festival. Difficile immaginare un cast di presentatori più diplomaticamente in bilico fra tradizione strapaesana e modernità pop.
Tra gli ospiti stranieri ricordo i Dire Straits che facevano (in playback) diverse canzoni tra cui Romeo and Juliet che, pur senza capirne una parola se non Juliet (Romeo era pronunciato in modo troppo strano per me), mi erano piaciute un sacco. Ma, come vedremo, non fu quello il 45 giri che comprai.

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La vincitrice annunciata di quell’edizione era Loretta Goggi con Maledetta primavera, un pezzone melodico che lei interpretava a voce spiegata con grinta e grande abbondanza di vibrato. Loretta Goggi era un personaggio televisivo popolarissimo e senza dubbio la concorrente più famosa di quell’edizione. Era già nota per le sue imitazioni (è stata la prima imitatrice della tv italiana e sicuramente la prima donna a condurre da sola un programma) e dominava il palco dell’Ariston, cosciente delle telecamere che la seguivano più di qualunque altro concorrente. Era una donna di spettacolo e di televisione nel pieno della maturità, pronta a prendersi ciò che le spettava. Io e la mia compagna di banco Silvia (la bambina più alta della classe) ci chiedevamo cosa potesse mai essere il “sogno erotico” di cui lei parlava nel testo e abbiamo ricevuto dai nostri genitori una qualche confusa spiegazione che ci ha lasciati ancora più perplessi.

La canzone ci piaceva (come ci piacevano anche Gioca-Jouer e Caffè nero bollente dell’esordiente Fiorella Mannoia) ma quando su quel palco è arrivata Alice con Per Elisa la nostra prospettiva sul festival e su cosa potesse fare una canzone si è capovolta. Io e Silvia non lo sapevamo ancora, ma quando sul palco è salita Alice – con i suoi pantaloni aderenti da cavallerizza, quegli stivali, quel bolero, quella sciarpa e quei capelli selvaggi effetto bagnato – erano finiti per sempre gli anni settanta ed erano cominciati, trionfalmente, gli ottanta: gli anni della nostra adolescenza. Non che Loretta Goggi non fosse bella. Ed era bella anche la presentatrice Eleonora Vallone. Solo che Alice era bellissima. E in più aveva qualcosa di pericoloso e di imprevedibile. Si guardava intorno come se fosse spaventata da qualcosa e riusciva a sembrare allo stesso tempo fragile ma indistruttibile.

Loretta Goggi cantava con le movenze studiate di una diva degli anni sessanta (stava ben attenta a non “mineggiare” troppo anche se le sarebbe riuscito facilissimo). L’elegantissima tuta Versace che indossava in una delle tre serate era stata la sua unica concessione alla contemporaneità. Per il resto la messa in piega, i gioielli, quel vestito lungo dell’ultima serata la rendevano, per noi bambini, una “cosa da grandi”. Alice invece, pur nella complessità di quello che diceva, cantava per noi.

La forza di Per Elisa è quella dei grandi pezzi pop: si innesta nell’immaginario di un’epoca e di una generazione

Una tale Elisa che non è nemmeno bella le ha portato via il ragazzo. Lui con lei guarda le vetrine senza annoiarsi (in quegli anni il sabato non si faceva shopping ma si guardavano le vetrine) e senza di lei non scende neanche a prendere il giornale (il giornale di carta era ancora considerato un bisogno primario delle persone, pensate un po’). Alice non ne può più di questa Elisa e poi si rivolge al suo, a questo punto, ex: “Ti ha plagiato, ti ha tolto anche la dignità”. Se fossimo stati in un’opera del belcanto anziché al festival di Sanremo Per Elisa sarebbe un’aria di furore o di vendetta. Alice è composta e quasi altera, canta senza smancerie: tutta l’espressività è nella voce che proietta con uno stile che ricorda più la teatralità asciutta di Milva che la docilità cinguettante di tante cantanti italiane.

Alice nel 1981 non è un’esordiente. Ha già dieci anni di gavetta alle spalle: aveva vinto il festival di Castrocaro nel 1971 e aveva cambiato nome varie volte: Carla Bissi (il suo vero nome), Alice Visconti, poi solo Alice. Nel 1980 firma con Franco Battiato il suo primo grande successo, Il vento caldo dell’estate. Per Elisa è dunque una nuova collaborazione con il musicista siciliano e con il suo stretto collaboratore Giusto Pio. La canzone è battiatesca nella struttura (ricorda molto certo materiale pop rock del suo album La voce del padrone) ma lo è poco nel testo. In Per Elisa non ci sono esotismi, esoterismi o parole criptiche. Anche il riferimento al breve e notissimo Klavierstück di Beethoven (Per Elisa, appunto) è appena suggerito. Il testo di Alice è molto diretto: è una recriminazione, un atto di accusa, lo sfogo di una donna abbandonata che avverte il suo ex che sta cadendo in un buco nero. L’ex ragazzo di Alice non ha scambiato una Bmw con una Twingo, scegliendo Elisa ha lasciato la luce per sposare le tenebre. L’unica porzione di testo scritta da Battiato sulla musica era quel ritornello “Vivere non è più vivere”, intorno a cui la cantautrice ha cucito tutta la sua storia di abbandono e di dipendenza.

La dipendenza affettiva è il perno su cui ruota il testo di Per Elisa. E Alice è talmente precisa nel tratteggiarla che in molti, per molti anni, hanno creduto che Per Elisa fosse una metafora dell’eroina. All’inizio degli anni ottanta quella della droga, e in particolare dell’eroina, era una piaga che mieteva vittime e occupava le prime pagine dei giornali. Noi bambini crescevamo nel terrore della droga: trovavamo le siringhe usate nei parchi, ogni tanto conficcate negli alberi, ed eravamo continuamente catechizzati sui pericoli della droga e dei drogati, una categoria di persone che ci veniva descritta come sfortunata, abbietta se non addirittura subumana. Per i bambini dei primi anni ottanta la droga era una minaccia più spaventosa della guerra atomica di cui si parlava sempre più insistentemente.

In una recente intervista a Rolling Stone, Alice ha chiarito che quando scriveva Per Elisa non aveva in mente l’eroina, voleva solo parlare di una situazione di dipendenza affettiva, di quella che oggi va di moda chiamare “relazione tossica” (vedi però le coincidenze lessicali?). Eppure, quando una canzone prende il largo e diventa un successo pop di dominio pubblico si apre a qualunque interpretazione. E la forza di Per Elisa è quella dei grandi pezzi pop: si innesta nell’immaginario di un’epoca e di una generazione. Elisa può essere solo una rovinafamiglie senza scrupoli, ma può tranquillamente essere anche l’eroina, la droga che ha falcidiato la gioventù della fine degli anni settanta.

È la stessa Alice, con la sua interpretazione nervosa e quei bellissimi occhi sgranati, a suggerire che forse nella sua canzone c’è di più. I grandi pezzi pop procedono sempre per sottrazione d’indizi e ci obbligano a scavare, anzitutto dentro di noi, per trovare un senso. Per Elisa lo fa sia con il testo sia con l’interpretazione.

La cosa che continua a sorprendermi di quell’interpretazione di Alice a Sanremo è quel momento in cui, dopo il ritornello, un riff di chitarra riporta in crescendo la canzone al verso. A quel punto Alice ha uno scatto, lascia la sua posizione centrale, a gambe divaricate davanti al microfono e al pubblico, e si volta come per volersene andare. Per un istante Alice spezza il quasi insostenibile contatto visivo che ha con il pubblico e con la telecamera. Poi torna indietro in tempo per riprendere il verso e ricomincia a fissarci e a cantare con quel tono stentoreo e accusatorio. Guarda un po’ verso di noi e un po’ intorno a sé, come se si aspettasse qualcosa. Ha negli occhi quella che i soldati statunitensi chiamano situation awareness: la consapevolezza che ovunque potrebbe esserci un pericolo a cui bisogna reagire prontamente. Alice non sale sul palco per blandirci o tantomeno per sedurci: sale sul palco come se fosse in un campo di battaglia.

La facciata B di quel 45 giri che, come ormai avrete capito ero corso a comprarmi, conteneva un altro pezzo, Non devi avere paura, stavolta interamente composto da Alice. Anche qui il tono è accusatorio e Alice sembra prendersela con un’amica un po’ depressa o forse con se stessa: non devi avere paura, non devi startene chiusa in casa, devi reagire: “Siamo vivi e vivi qui dobbiamo stare”. C’è però un punto della canzone che mi turbava allora e continua a turbarmi oggi:

Tu non devi avere paura
Mentre senti la sua mano che ti sfiora lentamente la gola,
Non è detto che ti voglia ammazzare
Ma forse lui ti vuole solamente accarezzare

Ok, non è detto che ti voglia ammazzare, ma il dubbio c’è e inquina tutta una canzone che sembrerebbe essere un invito a svegliarsi e a vivere la vita. E riascoltata oggi, con tutta la consapevolezza che abbiamo sui meccanismi della violenza di genere, ci suona ancora più enigmatica. È ancora una volta quella caratteristica della grande musica pop: continuare a inquietare, a instillare dubbi, ad aprirsi a interpretazioni anche a distanza di decenni.

Alice era e ha continuato a essere un’artista sperimentale. Anche sul palco di Sanremo. Il successo di Per Elisa l’ha presa in contropiede ma non le ha fatto cambiare rotta. Nessuno si aspettava che avrebbe potuto vincere Sanremo quell’anno eppure stravinse, anche su un’avversaria forte come Loretta Goggi, che portava quella che a tutt’oggi possiamo considerare la canzone sanremese perfetta. Forse non è stato neanche tutto merito di Alice e Battiato: i tempi erano semplicemente cambiati e l’Italia televisiva era pronta finalmente a lasciare gli anni settanta per avventurarsi negli anni ottanta.

Alice
Per Elisa / Non devi avere paura (7”)
EMI, 1981

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