20 giugno 2023 16:03

La scrittrice britannica Bernardine Evaristo nel 2019 ha vinto il Booker prize con un romanzo intitolato Ragazza, donna, altro, edito in Italia da Sur. Evaristo era rimasta colpita da quanto le donne nere, in particolare quelle britanniche, fossero poco rappresentate nella letteratura del suo paese e ha scritto un romanzo in cui s’incrociano le storie di dodici donne afrodiscendenti nate e cresciute nel Regno Unito.

Le loro origini sono le più diverse: c’è chi ha un genitore o un avo nigeriano, chi caraibico, chi camerunese, chi somalo. Ma soprattutto sono molto diverse le loro vite e le loro occupazioni: ci sono Amma, regista teatrale con sua figlia Yazz, studente e attivista; Carole, ambiziosa donna in carriera, e Bummi, sua madre, che faceva le pulizie negli uffici; Shirley che fa l’insegnante; Hattie, una novantacinquenne che coltiva la terra nel nord del paese; e Megan/Morgan persona non binaria alla ricerca della propria identità. L’obiettivo di Evaristo è far vedere quanti modi diversi esistono di essere donne e nere in un paese come il Regno Unito, fuori da qualunque stereotipo e pietismo.

Dominique, uno dei personaggi del romanzo, è un’attivista lesbica che si trasferisce negli Stati Uniti per seguire un’amante in una comune separatista in mezzo al nulla. Quando le compagne, tutte nordamericane, sentono il suo accento britannico non credono alle loro orecchie: una donna nera può parlare così? Può parlare con un accento non solo europeo e snob, ma simile a quello dei bianchi, discendenti diretti di oppressori e schiavisti? Non è che questa compagna inglese è arrivata qui carica di razzismo interiorizzato? L’idea che una donna nera, lesbica e femminista radicale come loro potesse essere anche inglese non le sfiorava nemmeno.

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È esattamente la stessa cosa che, nel 1989, aveva notato la cantante britannica Caron Wheeler, quando due canzoni che aveva scritto, arrangiato e cantato con il gruppo londinese dei Soul II Soul erano entrate incredibilmente in classifica negli Stati Uniti. Keep on movin’ e Back to life (However do you want me) erano state due grandi hit, in Europa prima e negli Stati Uniti poi, e avevano fatto capire a molti che esistevano una scena musicale e una tradizione afrodiscendente anche fuori dei confini dell’ortodossia afroamericana.

I Soul II Soul non erano una band, erano un collettivo che funzionava come un classico sound system giamaicano: mc, rapper e cantanti si alternavano, improvvisavano, scrivevano e producevano senza una gerarchia precisa se non quella del flow. Keep on movin’, in particolare, era in origine una canzone house, anzi hip-house, come andava di moda in quegli anni in cui hip hop e dance cominciavano a ibridarsi, soprattutto negli Stati Uniti. La genialità di Wheeler era stata di rallentarla e trasformarla in un quasi-reggae che richiamava la tradizione tipicamente britannica del lovers rock, il reggae romantico e dolce cantato da donne che andava di gran moda negli anni settanta e ottanta tra i neri britannici della diaspora afrocaraibica.

Negli Stati Uniti, dove il suono della fine degli anni ottanta era il ritmo aggressivo e sincopato del new jack swing, Keep on movin’ è sembrata un’esotica e bizzarra novità. Caron Wheeler e Jazzie B dei Soul II Soul hanno fatto scoprire alle classifiche statunitensi che esisteva un altro modo di essere neri e un altro modo di fare musica da club. Mentre negli Stati Uniti il rap diventava sempre più gangsta e il pop, anche quello da classifica, si contaminava sempre di più con l’hip hop e il new jack swing, i Soul II Soul parlavano una lingua più internazionale e colta, piena di riferimenti al pensiero postcoloniale e alla diaspora di quella parte di mondo che gli imperialisti britannici chiamavano West Indies, le Indie occidentali.

Quando Wheeler lascia i Soul II Soul firma un contratto con la Emi per un album solista che esce appena un anno dopo il successo internazionale di Keep on movin’ e Back to life. L’album ha un titolo programmatico: UK Blak. La parola black scritta senza la lettera c è un omaggio alla scelta di un gruppo di aborigeni australiani che hanno volutamente cambiato la parola inglese in chiave anticolonialista. Era un modo per riappropriarsi di una parola che in bocca ai bianchi continuava ad avere connotazioni dispregiative. UK Blak dunque significa essere neri e britannici, consapevoli della propria storia diasporica e del suo peso culturale e sociale nel paese in cui si è nati.

L’album si apre con queste parole: “Molte lune fa ci fu detto che le strade erano lastricate d’oro e la nostra gente è arrivata qui per aria e per mare per guadagnare soldi che potevano tenersi per volare di nuovo a casa. Purtroppo non è mai successo e abbiamo capito che eravamo stati invitati solo per ripulire il paese dopo la guerra”.

Un altro tema che scorre lungo le canzoni di UK Blak, in cui si mescolano reggae, hip hop, house e dub, è quello delle radici “che diventano una subcultura”. Nei video e nei concerti Wheeler indossa tutti i simboli della diaspora afrocaraibica: dreadlock, tessuti stampati, grandi gioielli, ciondoli con la sagoma dell’Africa e orecchini a cerchio come simbolo di appartenenza e di orgoglio. Perché ricorda che c’è stato un momento in cui ai neri britannici si chiedeva implicitamente di “integrarsi”, di mimetizzarsi il più possibile nella società dei bianchi.

Anche il libro di Evaristo affronta il tema dei neri dalla pelle molto chiara che possono passare per bianchi. È un pensiero che a un certo punto, nel suo flusso di coscienza, ha l’anziana Hattie, l’agricoltrice novantenne del romanzo, guardando i suoi bisnipotini: “Nessuno di loro s’identifica come nero e lei sospetta che passino per bianchi (…). A lei non importa, qualunque cosa vada bene per loro e se riescono a cavarsela così, buona fortuna, perché addossarsi il peso del colore?”.

Nell’estetica di UK Blak c’è quest’idea della blackness coltivata fuori dal mainstream, nei quartieri e nei party, nei negozi di dischi specializzati in reggae e dub, nei sound system e nelle radio pirata, una blackness che da patrimonio tramandato dai nonni e dai bisnonni si trasforma in sottocultura giovanile musicale e non solo.

UK Blak ha un solo singolo di successo, Livin’ in the light, che però non riesce a entrare nella top ten britannica. Il pezzo, prodotto da Afrika Baby Bam dei Jungle Brothers, è un funk-swing perfetto che riesce a far brillare le capacità vocali (e di arrangiatrice) di Caron Wheeler. Il pezzo parla di persone che dall’Africa o dai Caraibi si sono trovate ad adattarsi al clima e alla vita delle città britanniche: “Strano come mi porti un sorriso sulle labbra pensare che ancora resistiamo”. È un inno alla sopravvivenza, alla forza e alla creatività degli afrodiscendenti inglesi che hanno il coraggio di “vivere nella luce”.

UK Blak non ha un grande successo: viene promosso poco e male dalla Emi che insiste a spingerlo, in un mercato saturo, come prodotto dance, sperando di sfruttare la popolarità che i Soul II Soul avevano avuto solo l’anno prima. Riascoltato oggi è un album coraggioso, ispirato e potente, cantato da un’artista al massimo delle sue capacità vocali ed espressive. Soprattutto è un album che in qualche modo anticipava quello che stava succedendo in un’altra città inglese, Bristol, dove i Massive Attack, un altro collettivo formato da bianchi che venivano dall’esperienza post-punk e neri che venivano dal dub e dai sound system, lavoravano alla ricerca di un suono che raccontasse la complessità di essere britannici alla fine del novecento.

Caron Wheeler
UK Blak
Emi, 1990

UK Blak non è disponibile nelle più diffuse piattaforme di streaming europee

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