Invece del consueto concerto all’aperto in piazza del Duomo, che l’anno scorso fu annullato all’ultimo momento per un’acquazzone, il festival dei Due mondi si è aperto al teatro Nuovo con l’Ariadne auf Naxos, opera di Richard Strauss del 1912, con la direzione e la regia teatrale del compositore e direttore d’orchestra ungherese Iván Fischer.

L’Ariadne, nata dalla collaborazione di Strauss con il drammaturgo austriaco Hugo von Hofmannsthal, è un’opera leggera nelle intenzioni ma molto complessa per la sua faticosa elaborazione, avvenuta prima e durante la prima guerra mondiale, e per la sua multiforme natura. L’opera si avvita su stessa tanto graziosamente quanto astrusamente dalla tragedia classica alla commedia, da un finto settecento viennese a un tardo romanticismo post-wagneriano.

L’Ariadne era nata da un’idea di Hofmannsthal: scrivere una piccola opera teatrale secondo lo stile di Molière a cui Strauss, come si usava nel settecento, avrebbe aggiunto degli intermezzi musicali. L’opera, che nelle intenzioni iniziali doveva essere molto semplice, quasi uno scherzo, si complicò: il Bourgeois gentilhomme, questo il titolo del lavoro, si andava frastagliando tra incursioni nella Commedia dell’arte, divagazioni “alla turca” e balletti, tanto che Hofmannsthal stesso a un certo punto decise di darci un taglio.

L’unico momento di teatro nel teatro all’interno del Bourgeois sarebbe stata la messa in scena fittizia di un melodramma classico: la storia di Arianna, principessa cretese, abbandonata da Teseo sull’isola deserta di Nasso. Secondo una teoria, l’espressione italiana “piantare in (N)asso” deriva proprio dal nome del luogo in cui la poveretta fu mollata da sola a disperarsi. E già in questa versione prendeva corpo l’idea delle maschere della Commedia dell’arte (Zerbinetta, Arlecchino, Scaramuccio, Brighella e Truffaldino) che si ritrovavano nell’isola a consolare con i loro lazzi la povera eroina abbandonata. Nel libretto di Hofmannsthal questo ibrido tra tragedia classica e commedia nasceva dalla volontà del borghese arricchito Jourdain, che voleva offrire ai suoi ospiti uno spettacolo aristocratico (una bella tragedia alla Racine) che però non fosse noioso: quindi perché non far interagire le maschere della Commedia dell’arte con l’altera principessa riversa sul suo scoglio tra panneggi, naiadi e delfini?

Una lavorazione tormentata e un fiasco

Lo spettacolo era comunque troppo lungo, farraginoso e costoso da realizzare. E soprattutto mandò quasi a monte la collaborazione tra il musicista e il poeta. Quando andò in scena, nel 1912 a Stoccarda, la prima versione di questo ibrido tra Bourgeois gentilhomme e Ariadne auf Naxos fu un clamoroso fiasco. Il pubblico che era lì per ascoltare la musica del compositore del Rosenkavalier e della scandalosa Salome del 1905 detestò la commediola di Hofmannsthal e il pubblico che si aspettava essenzialmente uno spettacolo di prosa si annoiò oltre ogni limite. Per rendere ancora più interminabile lo strazio, il re Guglielmo II pensò bene di offrire una cena per gli artisti nell’intervallo tra la prima e la seconda parte. Nel settecento a teatro si mangiava e si giocava a carte; nella Baviera dei primi del novecento no. Il pubblico, piantato in asso come la principessa cretese, doveva solo armarsi di pazienza e aspettare che il ricevimento reale finisse.

Nel 1916 Strauss e Hofmannsthal rimisero le mani sulla loro disgraziata Ariadne e concepirono la versione che siamo abituati a vedere oggi. L’intero blocco del Bourgois gentilhomme è scartato e viene composto un prologo in cui un riccone viennese decide d’intrattenere i suoi ospiti con il capriccioso spettacolo dell’Arianna a Nasso consolata dalle maschere della Commedia dell’arte. Questo snellimento permette a Strauss e Hofmannsthal di mettersi d’accordo sul significato di questo bizzarro lavoro.

L’Ariadne è un’opera sulla metamorfosi, su due mondi che apparentemente non coesistono ma che a un certo punto si trovano costretti a mescolarsi fino a un metafisico e molto novecentesco finale in cui Arianna viene soccorsa dal dio Bacco e, trasfigurata, viene portata in trionfo tra le stelle. Arianna e Bacco, creature del mito antico, unendosi si disfano e tornano a fondersi con lo spazio siderale così come, con la prima guerra mondiale, va disfacendosi malinconicamente la graziosa vecchia Vienna di Strauss e Hofmannsthal.

Ariadne auf Naxos al festival dei Due mondi di Spoleto, 28 giugno 2024. (Gianluca Pantaleo)

Alberto Arbasino nel suo libro Marescialle e libertini (Adelphi 2004) dedica un lungo capitolo, tanto esilarante quanto estenuante, all’estetica delle opere di Richard Strauss. E ci ricorda che storicamente l’Ariadne auf Naxos “come ‘teatro nel teatro’ precede di nove anni i Sei personaggi (e di diciotto Questa sera si recita a soggetto); e inoltre coincide con le varie Arianne addormentate che DeChirico va trasferendo in tante Piazze d’Italia”.

L’Ariadne dunque, dopo aver attraversato soprattutto in Italia un periodo di disgrazia nell’immediato dopoguerra, anni in cui era considerata una svenevole e decadente buffonata, diventa una specie di parco giochi per registi in vena di metateatro e di ardite riletture. Arbasino ricorda le Arianne ambientate “in un’Isola dei morti fuori stagione e senza prenotazioni” (Luca Ronconi) e quelle dei bei tempi andati che somigliavano “a un magnifico centro-tavola di Nymphenburg con rocailles di porcellana candida e svolazzi dorati, e un contorno di naiadi e maschere come saliere e pepiere”, fino ad arrivare a più recenti produzioni berlinesi ambientate su “una spiaggetta peggio ancora di Mykonos a Ferragosto, dove una poveraccia si lagna sulla ghiaia. Fra materassini colmi di anziani e panzoni gay tedeschi”.

Eseguire e mettere in scena l’Ariadne auf Naxos è quindi un’operazione complessa, sia dal punto di vista musicale (c’è un organico orchestrale relativamente piccolo a cui è richiesto di passare dal finto settecento a un rapinoso finale tardissimo romantico) sia da quello teatrale, visto che è un’opera in cui succede pochissimo ma si sottintende tantissimo. Luca Ronconi aveva detto in un’intervista a Repubblica del 2000 che “le opere di Strauss richiedono l’intervento di un regista. A volte si è chiamati a dire la nostra quando l’opera non lo richiede”, e si dimostrava pronto a qualunque tipo di forzatura; Iván Fischer a Spoleto decide, in maniera altrettanto provocatoria, di fare il contrario e, nella sua doppia (e molto ambigua) veste di direttore d’orchestra e di regista, decide di azzerare tutto e di ripartire dal via.

Una nuova Ariadne ibrida

Anzitutto prende la versione del 1916, quella che aveva finalmente trovato pace ed era entrata nei repertori di tutti i teatri del mondo, e la smembra. Taglia il prologo, a cui sostituisce una suite orchestrale composta nel 1920 con alcuni pezzi delle musiche di scena del Bourgeois gentilhomme. Di fatto crea un’ulteriore chimera, una sorta di fanta-Ariadne che, in una realtà parallela, reagisce in modo diverso al traumatico fiasco del 1912. Fischer ritiene che Strauss fece un errore a buttare via la musica del Bourgeois, che non solo era molto bella, ma dal punto di vista estetico abituava l’orecchio del pubblico a quel finto settecento di cui nella versione del 1916 rimaneva solo un pallido simulacro. L’interventismo di Fischer non è dunque diretto in prima istanza al teatro ma proprio alla partitura, che trasforma in un pastiche del pastiche. Se ai registi piacciono tanto il metateatro, il gioco degli specchi e le scatole cinesi, perché un direttore moderno e colto come Fischer non può prendersi le stesse libertà con la musica?

Almeno nella prima parte l’idea di Fischer, direttore e regista, funziona. La suite del Bourgeois gentilhomme fa da ouverture e da prologo senza parole dell’Ariadne. L’orchestra non è nella buca ma occupa tutto lo spazio scenico mentre la musica brillante riempie la sala e rievoca quel finto settecento reinventato da un novecento esanime e stanco di avanguardie e provocazioni. Mentre i musicisti suonano e Fischer dirige, sono palpabili il divertimento e la leggerezza. E quando entrano in scena le maschere della Commedia dell’arte comincia a essere chiara l’intenzione di Fischer. Non c’è nessun bisogno di un prologo che spieghi come il mondo della commedia e quello della tragedia classica arrivino a scontrarsi: è la musica stessa a generare il teatro e i suoi personaggi. A un violinista vengono tolte le scarpe mentre suona un difficile assolo e gli vengono fatte mettere delle buffe scarpette verdi infiocchettate, alla pianista impegnata in un passaggio impervio viene fatto indossare un cappelluccio turchese simile a quello di Pinocchio e così via, finché ogni componente dell’orchestra viene punzecchiato, impennacchiato e ridicolizzato in qualche modo.

Il rapporto che Iván Fischer ha con la Budapest Festival Orchestra è il vero spettacolo della serata: tutti si divertono, sulla scena e in platea, e la prima parte di questa strana Ariadne mostra la sua faccia più gioiosa, tra Pulcinella che ruzzolano da tutte le parti e Fischer che arriva a dirigere una parte della suite semisdraiato su una roccia di polistirolo che, nel secondo atto, diventerà la solitaria isola di Nasso bruciata dal sole e battuta dai venti.

Capita di rado di assistere a uno spettacolo che fa interrogare su cosa significhi oggi mettere in scena un’opera lirica

Nella seconda parte le (brutte) sedie di legno su cui siede l’orchestra vengono spostate indietro mentre buna parte del palco viene riempita con elementi scenici volutamente poveri e un po’ arronzati, pannelli dipinti con onde del mare che sembrano uscite da un cartone animato ungherese o bulgaro degli anni settanta e rocce di polistirolo. È una povertà che io vedo, più che come sciatteria, come una scelta stilistica per fare in modo che tutte le suggestioni arrivino dalla musica e da quella meravigliosa orchestra, sempre in scena a dare sostanza all’azione e ai personaggi.

Le mie buone intenzioni iniziali cominciano a vacillare man mano che si dipana la tragedia di Arianna abbandonata e che la scena comincia ad affollarsi e, diciamolo, a incasinarsi. L’orchestra è magnifica e la musica scorre indisturbata in tutta la sua complessa e raffinata leggerezza. Le tre naiadi (Samantha Gaul, Olivia Vermeulen e Mirella Hagen) offrono la migliore performance vocale della serata, ma più faticosa è la parte di Arianna (Emily Magee) che, pur con il costume migliore della produzione che ricorda con i suoi panneggi e i suoi ricami una classicità rivisitata nella Germania dell’ottocento, rimane molto statica e vocalmente non sempre brillantissima.

Tutt’altro che statiche sono le maschere: Scaramuccio (Stuart Patterson), Truffaldino (Daniel Noyola), Arlecchino (Gurgen Beveyan) e Brighella (Juan de Dios Mateos) sono in parte sia vocalmente sia fisicamente. Saltellano ovunque e riempiono ogni anfratto libero di questa scena più affollata della Mykonos di Ferragosto ricordata da Arbasino. La Zerbinetta di Anna-Lena Elbert è brillante e sexy ai limiti del soft porno quando si cambia maliziosamente le calze in scena e quando lancia i suoi sopracuti mentre una delle maschere sparisce sotto la sua ampia sottana. In quanto doppio epicureo e godurioso della disperata e depressa Arianna tende a strafare e a metterla in ombra. Arianna si rifa nel finale (musicalmente magnifico) in cui Bacco la soccorre e fa librare le loro due anime nel firmamento. Alla fine aveva ragione Zerbinetta: perché disperarsi per un uomo quando dopo ne arriva uno più bello e che è pure un dio?

Il merito della produzione di Iván Fischer è nelle libertà che si prende con la partitura e la decisione (riuscitissima) di dare così tanto spazio alla musica e all’orchestra. Dal punto di vista musicale e poetico le sue intenzioni sono chiare e il pubblico le ha recepite, ha riso, si è emozionato e applaudito a lungo.

Però, per quanto la povertà della produzione fosse voluta, per quanto Fischer volesse rievocare il teatro briccone e un po’ da guitti della commedia dell’arte, più volte è caduto nell’ingenuità o nella sciatteria. Il Fischer direttore d’orchestra è una divinità onnisciente che muove tutto, mentre il Fischer regista fa fatica a dare una forma drammatica al suo stupendo mondo musicale. Non penso però che questa Ariadne auf Naxos sia stata un’occasione mancata. Tutt’altro. Capita di rado di assistere a uno spettacolo che fa interrogare su così tanti livelli su cosa significhi oggi mettere in scena un’opera lirica. In questo senso Iván Fischer incarna il miglior spirito sperimentale del festival dei Due mondi, perché con il suo lavoro ci ha fatto divertire, ci ha incantati, ci ha irritati e ci ha fatti sentire anche un po’ in imbarazzo. Soprattutto ci ha fatto discutere, che alla fine è la vera ragione per cui esistono ancora festival-laboratorio come questo.

Il festival dei Due mondi continua a Spoleto fino al 14 luglio.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it