22 aprile 2022 17:09

Ormai abbiamo tutti visto molti thriller distopici ambientati sul posto di lavoro. È quindi sorprendente che Severance (Scissione) di Ben Stiller trovi ancora modo di colpire un nervo scoperto.

La nuova serie di nove episodi, realizzata da Apple Tv+ e diretta in gran parte da Stiller, è incentrata sulle Lumon industries, un’azienda con un controverso programma pensato per “scindere in modo chirurgico” i ricordi lavorativi dei dipendenti dai ricordi personali, rendendoli parzialmente amnesici per la maggior parte del tempo. Come spiega il neo promosso capo dipartimento Mark Scout (Adam Scott) alla tirocinante Helly R. (Britt Lower), la partecipazione al programma è totalmente volontaria e quindi “ogni volta che ti ritrovi qui, significa che hai scelto di tornare”.

È proprio quella frase a colpire il nervo più scoperto, suggerendo in maniera impietosa l’idea che abbiamo scelto un impiego e che continuiamo a sceglierlo. È una di quelle funeste frasi di propaganda che opprimono le nostre vite: l’idea che nella nostra folle corsa per guadagnarci da vivere, avremmo sempre potuto fare “scelte” molto migliori. Se non ci piace un lavoro, perché non ne troviamo un altro? Se il nostro percorso professionale si rivela disastroso, perché non cambiamo semplicemente carriera? Come se vivessimo in un gigantesco parco giochi nel quale, quando ci si stanca dello scivolo o della palestra, si può sempre provare l’altalena.

La faccia da lavoro
L’orrore intrinseco di Scissione coglie bene la familiare sensazione di aver preso una strada con il destino segnato. Scopriamo che il quarantenne Mark Scout ha fatto la scelta irrevocabile di lavorare al “piano scisso” dopo la morte di sua moglie, in modo da essere liberato dall’opprimente ricordo del suo decesso – almeno ogni tanto – mentre lavora alle Lumon industries. Lo vediamo singhiozzare nella sua auto nel parcheggio prima di entrare nell’enorme edificio dove si trovano gli uffici. Quando sale in ascensore, vediamo la sua faccia trasformarsi, passando dalla depressione della sua agonizzante vita personale a una “faccia da lavoro” più luminosa e sveglia. Il tutto mentre il suo cervello viene ripulito da qualsiasi cosa sia successa durante le ore trascorse lontano da lì.

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Sappiamo il motivo di questa trasformazione, che però richiama anche la terribile sensazione di quando ci sentiamo obbligati ad assumere una “espressione da lavoro” allegra e disponibile per affrontare la giornata, indipendentemente da quel che può accadere nella nostra vita personale.

La situazione lavorativa di Mark è piena di orrori aziendali, che conosce bene chi ha trascorso almeno un periodo in quei corridoi freddi che si aprono su uffici e sale conferenze terribilmente simili tra loro. Mark sembra dover camminare per chilometri attraverso un labirinto bianco e monotono per raggiungere il suo ufficio, dove una serie di cubicoli per quattro persone è stranamente isolata in uno spazio enorme e senza finestre. Lì la squadra del Macro-data refinement department lavora a un misterioso processo di pulizia dei dati: osserva una serie infinita di numeri che appaiono sugli schermi dei loro computer fino a quando non individuano quelli che “sembrano spaventosi”, per poi gettarli nel cestino. Ci vuole una certa pratica per riconoscere i numeri “spaventosi”.

Di questa squadra fanno parte il saccente Dylan (Zach Cherry), che fa incetta di tutti i premi per la produttività – cose inutili come trappole per le dita del caratteristico colore blu dell’azienda. Il premio più ambito è una “colazione a base di waffle”, presumibilmente perché questi lavoratori non ricordano la colazione, trattandosi di un pasto che consumano prima di arrivare al lavoro. John Turturro si distingue nel ruolo di Irving, il componente più anziano della squadra, teso ed esigente nel seguire le regole ma anche particolarmente vulnerabile sul lavoro. Per due volte commette l’errore di appisolarsi nella sua postazione. La punizione minacciata è quella di dover andare in “sala relax”. Non sappiamo ancora cosa succede nella “sala relax”. Ma capiamo che deve trattarsi di qualcosa di molto brutto.

Il supervisore ha un sorriso superficiale: è così sinistro, è così chiaramente una spia che chiunque abbia mai avuto un lavoro vedrà in lui una figura familiare

La nuova recluta si chiama Helly. La serie comincia con un’inquadratura dall’alto di questo personaggio che giace incosciente su un tavolo da conferenze, dopo aver appena subìto l’intervento chirurgico al cervello che ha separato la sua vita lavorativa da quella personale. Questo processo di “orientamento” passa da ripetuti e fallimentari tentativi di fuggire dall’edificio: la transizione di Helly verso il “piano scisso” non sta procedendo liscia, anche dopo che le mostrano un filmato nel quale lei stessa attesta di aver fatto liberamente questa scelta. E il suo atteggiamento poco collaborativo comincia ad avere effetto su Mark, generalmente molto rilassato.

Helly sostituisce Petey (Yul Vazquez), “amico di lavoro” di Mark che un giorno non si presenta in ufficio. La spaventosa direttrice Harmony Cobel (Patricia Arquette), con i lunghi capelli argentati a far risaltare il blu glaciale dei suoi occhi, spiega che Petey “non fa più parte dell’azienda”, ed è per questo che Mark prenderà il suo incarico di caporeparto. Ma non c’è nessuna spiegazione per l’improvvisa assenza di Petey. Insolitamente turbato dalla cosa, Mark è vulnerabile quando Petey gli si avvicina nella vita privata, anche se non ha alcun ricordo di lui. “Eri mio amico”, gli dice Petey, aggiungendo con un’enfasi inquietante, “ero il tuo migliore amico”.

È chiaro, ovviamente, che Mark sta per “prendere la pillola rossa” e seguire Petey per scoprire la verità su quello che sta succedendo alle Lumon industries. Petey gli consegna letteralmente una busta rossa con su scritto “Lumon blue”, con all’interno un indirizzo dove può trovare informazioni sull’azienda.

Chi è costantemente in guardia è il supervisore del “piano scisso” Seth Milchik (Tramell Tillman), un dirigente dal sorriso superficiale: così sinistro, così chiaramente una spia, così desideroso di far partecipare tutti a esercizi obbligatori di team building, che praticamente qualunque spettatore abbia mai avuto un lavoro vedrà immediatamente in lui una figura familiare. Non sorprende che il creatore della serie Scissione, lo sceneggiatore Dan Erickson, abbia tratto ispirazione da una serie di lavori d’ufficio che ha svolto quando si è trasferito a Los Angeles e che abbia dichiarato: “Mi sono trovato a desiderare di poter saltare subito alla fine della giornata. Volevo dissociarmi per le successivo otto ore. Poi ho pensato: ‘È una cosa sbagliata da desiderare. Dovremmo desiderare più tempo per noi, non meno’”.

Rielaborando quest’idea di volersi dissociare da lunghi momenti della nostra vita, Erickson ha immaginato la rappresentazione fantascientifica dell’inferno sul posto di lavoro che vediamo in Scissione. Il fatto che troviamo queste rappresentazioni così familiari deriva naturalmente anche dalla recente ondata di “grandi dimissioni” provocate dalla pandemia: 4,5 milioni di persone hanno lasciato volontariamente il loro lavoro, un “massimo storico”, secondo l’ufficio di statistiche sulla forza lavoro degli Stati Uniti.

Quel che attira in Scissione è il desiderio di vedere i personaggi liberati dalla loro trappola aziendale prima che questa li uccida, letteralmente. C’è un effetto particolarmente spaventoso nel primo episodio, quando Helly continua ad andare verso la porta d’uscita pensando di trovarsi nel corridoio che la conduce all’esterno, salvo poi scoprire che sta nuovamente attraversando la porta per tornare nella stessa stanza che ha appena lasciato. Questo ritorno forzato e da incubo – rientrare dalla porta quando si pensava di esserne appena usciti – è un’immagine impressionante e terribile dell’inferno lavorativo contemporaneo.

Dal momento che l’“orrore sul posto di lavoro” è la vera forza motrice della serie, c’è una grande tensione nell’’avere come protagonista un personaggio come Mark, un uomo volontariamente senza memoria che non può sopportare la sua vita personale. Sta cercando di perdersi nel suo impiego, e si sforza di non riconoscere quanto sia mostruoso il suo ambiente lavorativo.

Ci sono sempre stati molti Mark sul posto di lavoro. Non sarebbe bello pensare che anche i Mark di questo mondo stiano arrivando al punto di non poterne più?

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul trimestrale statunitense Jacobin.

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