25 luglio 2020 15:10

Con il loro articolo Beyoncé and the heart of darkness (“Il cuore di tenebra di Beyoncé”, Internazionale 1367), gli autori nigeriani Boluwatife Akinro e Joshua Segun-Lean hanno scatenato un piccolo terremoto traduttologico nella mia mente. La tesi di Akinro e Segun-Lean – “i rapporti di potere distorcono le rappresentazioni europee dell’Africa, ma queste distorsioni appaiono anche nelle opere intellettuali della diaspora nera contemporanea” – si articola intorno al concetto di blackness, termine che ricorre cinque volte.

La prima volta ho scelto di tradurlo con “l’essere nero” – “secondo lo storico britannico Paul Gilroy, l’essere nero è una condizione necessariamente transemisferica e basata sulla presentazione di elementi contrastanti” – ma una soluzione diversa s’imponeva per rendere la concisione e la ricchezza semantica di blackness, e ho scelto nerezza. “Se ammettessimo”, scrivono quindi Akinro e Segun-Lean, “che la teorizzazione della nerezza da parte della diaspora riproduce – senza che questo venga riconosciuto – l’egemonia occidentale, e sottolineassimo il predominio dei pensatori della diaspora in questo campo?”.

La traduttrice Gioia Guerzoni racconta sul blog Terminologia etc. di aver affrontato un problema simile traducendo l’articolo “On the blackness of the panther” di Teju Cole (incluso nel libro L’estraneo e il noto, Contrasto 2018). “Cos’è la blackness per un giovane scrittore nero americano nel 2018?”, si chiede Guerzoni. “Cole la usa per descrivere l’orgoglio nero, la vita dei neri americani, ma anche il colore di una pantera che lo affascinava da piccolo, o di un supereroe contemporaneo”. Guerzoni scarta tre possibilità (lasciare la parola in inglese, tradurla con negritudine o nerezza): “Negritudine è un calco dal francese, anni Cinquanta, contiene troppi strati di significato lontani, e blackness semplicemente non ci starebbe bene a casa. Nerezza, vetusto e con queste zeta che a me (perché sono io che traduco, che sento, e infine decido) fanno venire subito in mente bruttezza, monnezza, e non magari salvezza e bellezza. Sicuramente, significato a parte, non è un suono che mi dà un’idea di forza, di potere, di orgoglio”. Alla fine, Guerzoni decide di tradurre blackness con “nerità”.

Significati nuovi
Questo neologismo era già stato usato da Carla Muschio nella versione italiana del primo romanzo di Wole Soyinka, The interpreters (Gli interpreti, Jaca Book, prima edizione 1979, nuova edizione 2017). Uno dei personaggi del romanzo di Soyinka, Joe Golder, è un omosessuale “americano e tre-quarti bianco”, talmente fiero del suo quarto nero da chiedere a Kola, un pittore che ne fa il ritratto, di “annerirlo”: “Make me the blackest black blackness in your pantheon”, esclama (e Muschio traduce efficacemente “Fammi la più nera nerità nera del tuo pantheon”). Qui “nerità” serve a evocare l’idea di divinità, ma Muschio usa il neologismo anche qualche paragrafo prima, quando, sempre a proposito di Joe Golder, Soyinka scrive: “Stava in piedi nella biblioteca fissando enormi tomi di enciclopedia, osservando gambe in calzoncini, sbavando sulla nerità finché non si sentiva nauseato e stordito e si ristabiliva a poco a poco”.

“Nerità”, comunque, sembra aver attecchito soprattutto in ambito artistico. Cercando il neologismo su internet si trovano diversi siti dedicati alla pittura: Achille Bonito Oliva parlava per esempio di “nerità” nel catalogo di una mostra di Emilio Isgrò del 1987, mentre una mostra del 2007 di Jannis Kounellis si intitolava “La sostanza della nerità”.

Il fatto che la parola nerezza sia “non comune”, come precisa il vocabolario della Treccani, dedicandogli una definizione stringata, non deve scoraggiarne l’uso. La parola esiste e – sulla spinta di cambiamenti sociali, culturali e politici – ha già cominciato ad accogliere significati nuovi. Come ricorda il francesista Doyle Calhoun in un bell’articolo su Frantz Fanon, un neologismo “può anche indicare l’attribuzione di un nuovo significato a una parola preesistente”. Si parla allora di neologismo semantico, proprio quello che, secondo Calhoun, Fanon crea nel suo testo del 1952 Peau noire, masques blancs attraverso un uso deliberatamente sovversivo della parola noirceur, per indicare “la complessa, angosciante, perfino impenetrabile concezione dell’‘esperienza vissuta del Nero’”. Non a caso, osserva Calhoun, sulle sette occorrenze della parola, Fanon la unisce sei volte a un aggettivo possessivo: “L’evidenza era lì, implacabile. La mia nerezza era lì, densa e indiscutibile. Mi tormentava, mi perseguitava, mi inquietava, mi esasperava”, in Pelle nera, maschere bianche (ETS 2015, traduzione di Silvia Chiletti).

Lo stesso processo di risemantizzazione è in corso nei Paesi Bassi e in Belgio con il termine zwartheid

Come noirceur in francese, ma con qualche decennio di ritardo, la parola nerezza in italiano è in corso di deliberata risemantizzazione. È usato in ambito accademico, per esempio da Caterina Romeo nel suo recente libro Riscrivere la nazione. La letteratura italiana postcoloniale (Le Monnier 2018) e dagli autori dei due testi, entrambi accessibili online, A fior di pelle. Bianchezza, nerezza, visualità a cura di Elisa Bordin e Stefano Bosco (Ombre Corte 2017) e Visualità e (anti)razzismo, a cura di InteRGRace (Padova University Press 2018).

Martina Testa lo ha scelto per tradurre blackness nel racconto I 5 della Finkelstein dello scrittore statunitense Nana Kwame Adjei-Brenyah (tratto dalla sua raccolta di esordio Friday Black, Sur 2020), il cui protagonista, Emmanuel, “in ogni momento di ogni giornata […] tiene conto del proprio grado di Nerezza su una scala da 1 a 10”. Sul suo blog Meticciamente, la blogger italo-ivoriana Pamela Aikpa Gnaba ricorda un momento cruciale del percorso che nel 2014 l’ha spinta a trasferirsi in Costa d’Avorio, paese d’origine del padre: “A circa vent’anni ho avuto una rivelazione scoprendo il movimento intellettuale della négritude. Questo è stato un bivio importantissimo che mi ha portato a una riscoperta dell’Africa e delle sue culture, a una rivalorizzazione della mia nerezza e a un crescente interesse verso le mie radici”. La mia nerezza, ma noirceur, my blackness (e qui devo evocare un esplosivo amore di gioventù, che mi ha accompagnata in questi giorni di riflessioni: Intellectualise my blackness di Skunk Anansie).

Lo stesso processo di risemantizzazione è in corso nei Paesi Bassi e in Belgio con il termine zwartheid. Nei nuovi contesti in cui è usata, la parola rimanda spesso al personaggio folcloristico Zwarte Piet, “Pietro il nero”, il servo moro di san Nicola, criticato per le sue connotazioni razziste. In un recente video del collettivo Blacks speak back, le attiviste Olave Bosabose, Stephanie Collingwoode Williams e Laura Nsengiyumva si confrontano sulla questione, citando una frase della stessa Nsengiyumva, artista belgo-ruandese: “Il punto non è solo la nerezza (zwartheid) del Zwarte Piet, è anche la bianchezza di san Nicola”.

È certo che esiste un’accezione “statunitense” del termine blackness, come sottolinea Guerzoni citando l’Oxford English Dictionary: “b) (Spesso con la maiuscola). L’essere Nero, in particolare l’autoconsapevolezza razziale dei Neri (statunitensi), considerata motivo di orgoglio”. Per questo alcuni accademici preferiscono usare il termine inglese, per esempio nel volume A fior di pelle, dove si parla – oltre che di nerezza – di “blackness americana”. Ma, anche in inglese, quest’accezione è frutto di decenni di appropriazione ed elaborazione di un termine tradizionalmente peggiorativo da parte di scrittori, intellettuali, accademici, attivisti e politici.

Così, in altre parti del mondo, termini equivalenti evolvono in modi simili, anche se gli statunitensi non ne sono abbastanza consapevoli, osserva lo scrittore e traduttore John Keene in un articolo del 2016 intitolato “Translating poetry, translating blackness”. Anche Keene, come Akinro e Segun-Lean, invita a spezzare “l’egemonia delle prospettive occidentali e statunitensi sulla nerezza e sulle persone nere”, per arricchire ancora i significati del concetto di blackness.

Intanto, in regioni linguisticamente più circoscritte, parole come nerezza, noirceur, zwartheid hanno ripreso vita e sono destinate a occupare nuovi spazi con il moltiplicarsi dei discorsi su ciò che ha significato – e significa oggi – essere nere e neri.

Le foto di questo articolo fanno parte dei lavori selezionati per i Krazna-Krausz book awards. Il concorso si rivolge a libri fotografici che affrontano temi legati alla razza, all’identità, alla giustizia e alla costruzione della storia e della memoria. I vincitori saranno annunciati a settembre.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it