31 agosto 2012 10:58

Prima della kermesse veneziana, come si dice, ad agosto c’è un festival del cinema bello e importante. Quello di Locarno.

Da mercoledì 1 agosto, dopo un paio di giorni d’intermezzo dove sono stati proiettati dei classici, la rassegna ha preso il via per davvero. Un inizio un po’ lento con subito alcuni bei film, accanto ad altri meno convincenti, ma nulla di eclatante. Poi le sorprese sono arrivate.

Questo mentre la piazza Grande, davvero grande, dove la sensazione di spazialità è alimentata dalle facciate dei palazzi, intrattiene il grande pubblico con film a volte un po’ troppo per il grande pubblico. Nel senso che c’è uno scarto un po’ troppo netto tra quel che è proiettato all’aperto e quel che è proiettato in sala.

Un esempio? L’ottimo

No di Pablo Larraín, di cui abbiamo già parlato da Cannes, era uno dei primissimi film proiettati alla Quinzaine. E contemporaneamente vengono proiettati film simpatici a metà tra il cinema d’autore e quello di cassetta come Magic Mike di Steven Soderbergh.

Conclusosi l’11 agosto, il festival ha premiato nel complesso ancora una volta bei film e quello vincitore è sicuramente splendido: La fille de nulle part di Jean-Claude Brisseau. A molti però, noi compresi, è dispiaciuto però che sia rimasto senza premi quello che forse è il film più bello, certamente il più originale: Leviathan. Segnalo inoltre che a Roma in questi giorni saranno proiettate all’aperto alcune delle pellicole locarnesi.

Ma ecco un abecedario, suddiviso in due parti, a consuntivo di questi dieci e passa giorni di cinema che vuole essere un piccolo gioco un po’ impertinente, a cui si aggiungeranno tre brevi interviste ai registi Apichatpong Weerasethakul, Vimukthi Jayasundara, Jôao Pedro Rodrigues e João Rui Guerra Da Mata (co-registi del medesimo film, A última vez que vi macau).

A come Africa. Perché non dev’essere per prima? Quello che è probabilmente è il più interessante regista africano in attività, il ciadiano Mahamat-Saleh Haroun, autore dei magnifici Daratt e Un homme qui crie, era presidente della giuria della bella sezione Cineasti del presente. E la retrospettiva sul cinema africano, per l’esattezza su quello dell’Africa subsahariana francofona, curata da Elisabeth Lequeret, ottimo critico dei Cahiers du cinéma, malgrado la concorrenza di quelle su Leos Carax e Otto Preminger, era un vero ed entusiasmante caleidoscopio. Dal recente La pirogue, visto a Cannes e di cui abbiamo scritto, ai film limpidi del grande Ousmane Sembène, ex scaricatore di porto divenuto figura fondamentale del cinema senegalese e di quello africano tout court, prima letterato e poi regista per parlare al popolo in un paese dove regna l’analfabetismo. Fino all’indimenticabile Djibril Diop Mambéty, per restare in Senegal, o al mauritano Abderrahmane Sissako, con il film Bamako, che racconta un processo contro la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Da ricordare anche Yeelen, la luce, opera iperclassica del malese Souleymane Cissé.

Senza contare il Burkina Faso: Idrissa Ouedraogo, autore di parabole a metà tra film noir e western povero come l’ottimo Samba Traoré (uscito miracolosamente anche da noi) fu l’esponente di punta del cinema, che in quel paese si affermò come importante mezzo d’espressionee grazie al presidente Thomas Sankara. Fu Sankara, “politico” che definiva qualsiasi poliziotto o soldato un criminale potenziale, a fondare nel 1969 lo storico Festival panafricano di Ouagadougou, come ricorda la Lequeret nel catalogo.

**A come America. **Gli indipendenti americani proiettati al festival erano quasi tutti insopportabili. Il peggiore è stato proprio quello che ha conquistato il premio speciale della giuria, Somebody up there likes me di Bob Byington. È la storia di un giovane che si lascia scivolare tutto addosso, senza vero coinvolgimento umano, e alla fine anche la vita stessa gli scivolerà addosso. La vita statunitense è frenetica, e consente ormai solo una vita rapsodica, come quella di uno spot o di un videoclip. Che banalità. Ma anche Ape (Cineasti del presente - premio per il miglior regista emergente) di Joel Potrykus è abbastanza vuoto e compiaciuto, benché abbia un grado di profondità e follia maggiore. E un giovane attore protagonista che tiene il film.

In comune, hanno tutti quella di una forma cinematografica, dalla sceneggiatura alla regia, passando per la fotografia, senza dimenticare lo spirito compiaciuto che li anima, speculare al vuoto attuale dell’America. Insomma, assomigliano troppo a quello che vogliono denunciare. Se gli Stati Uniti ritengono di essere ormai svuotati di umanità e genuinità a tal punto da non saperci proporre altro che narrazioni sapide e infantili su un mondo insulso, allora non gli resta altro da fare che riunirsi all’aperto e organizzare un grande suicidio di massa. E che non se ne parli più. Si salvano Starlet di Sean Baker (Concorso Internazionale), commedia piacevole fondata sull’incontro scontro del viso levigato di una giovane e quello macilento e quasi respingente di una vecchia, Magic Mike di Soderbergh e soprattutto Compliance.

A come Arrajanos (Cineasti del presente). Il breve lungo di Eloy Enciso, 70 minuti, non mantiene tutte le promesse dell’inizio, alla fine si fa prendere troppo dalla filiazione straubiana. Cioè prende da Jean-Marie Straub l’approccio radicale al reale, teorizzato assieme alla sua adorata compagna Danièle Huillet scomparsa nel 2006, ma perde l’equilibrio con gli elementi più personali presenti nel film. Comunque sia, questo questo dialogo nella natura (e nel villaggio) tra contadini di una regione povera come quella della Galizia, dove la linea di demarcazione è flebile tra il recitato e il non recitato, l’arte e il reale, rimane in mente per numerosi momenti di poesia intensa, sia visiva che recitata. Un’opera di confine ambientata al confine tra Galizia e Portogallo.

A come Animali. Come ha già notato Eric Loret di Libération circa a metà festival, questo Locarno è stato pieno di animali. Pieno zeppo. Leviathan è soltanto uno dei tanti esempi. La cosa si è accresciuta dopo l’articolo di Loret. Il festival si è concluso in piazza con un documentario sulle api davvero straordinario, More than honey di Markus Imhoof. Le api sono filmate in tutti i loro aspetti e in varie località, dalla Svizzera natìa del regista alla Cina. Intervistando scienziati in tutto il mondo e con riprese incredibili tra gli alveari o tra le api in volo il regista propone alla fine, questa la parte forse più appassionante, l’allevamento delle api in termini ecologici e suggerisce qualche soluzione. Il tutto con un testo poetico ma privo di enfasi. Resta il mistero: come mai tutti questi animali a Locarno?

B come Brisseau. Il regista francese Jean-Claude Brisseau, vincitore del premio più importante, il Pardo d’oro, ci regala un film inatteso e pervasivo nella sua poesia leggera e inquietante. La fille de nulle part (Concorso internazionale), dove risplende la bionda Virginie Legeay, è un film che rimanda a scrittori come Isaac Singer e a un mondo di folletti e demoni immessi nel quotidiano più prosaico e moderno, anche se questo non è certo un film di cultura ebraica o yiddish: da dove sorge questa fanciulla che entra in modo traumatico (per lui, ma soprattutto per lei) nella vita di un anziano professore di matematica in pensione? E perché ne esce in maniera altrettanto traumatica (per lei, ma soprattutto per lui)? Cosa sono queste apparizioni misteriose nella casa? Il conflitto tra elementi come razionalità e irrazionale, mistica e mentalità cartesiana, superstizione e scienza, realtà e messa in scena, formano un tutto unico in questo film. Ma soprattutto, La La fille de nulle part è un poema soave e sommesso d’interrogazione su Dio e l’ateismo, la vita e la morte. E una dolcissima, pudica, storia d’amore. Una bella riuscita per il regista di Gli angeli sterminatori *e *L’angelo nero.

**B come Berberian sound studio (Concorso internazionale). **Un horror, firmato da Peter Strickland, ambientato in un set-studio di doppiaggio per un film horror. È divertente vedere i suoni terrificanti dei film horror fatti tritando verdure e insalate, ma va bene per un corto o per un ciclo di spot pubblicitari. Il film nel film è un visto nel già visto dell’ancora già visto.

C come Carax. Quest’anno, dopo oltre dieci anni di assenza dagli schermi, ha entusiasmato i cinéphiles a Cannes con il grandioso Holy motors e poi gli spettatori francesi perché nel frattempo il film è uscito in sala con successo. Rivedere i suoi film su grande schermo – Boy meets girl, Rosso sangue, Gli amanti del Pont-Neuf, Pola X – è stata un’emozione intensa, degna dei grandi classici della cinéphilie, appunto. Resta solo che se ne accorga la critica dei quotidiani italiani, perché altrove se ne sono accorti (quasi) tutti.

C come Compliance (Concorso internazionale). Il film del regista statunitense Craig Zobel non è solo una denuncia contro l’ossessione di quel paese verso il nemico, ma anche una una piccola pièce dell’assurdo, un dramma da camera un po’ kafkiano, ma partendo dal quotidiano a noi più vicino. Tratto da una storia vera, racconta della dipendente di un fast food che viene tenuta bloccata nel retro del locale dalla gerente su indicazione di una telefonata della polizia, che la spinge prima a perquisirla, poi a metterla nuda, e fargli sopportare per ore ogni angheria da parte della telefonata importuna. Fino ad esiti imprevedibili. In realtà, si tratta di un burlone perverso e scopriamo alla fine che sono stati innumerevoli negli Stati Uniti i casi del genere. L’ombra di Guantanamo ovviamente plana su questa commedia simpatica – una volta tanto – che è anche una piccola riflessione su finzione e realtà da un punto di vista inatteso.

C come Cina (n.1). Due film straordinari. Uno che parla di Vita e uno che parla di Morte. Anche se quello che parla di morte è un reazione della vita che non si arrende malgrado tutto. Ma cominciamo dalla morte. Vincitore del Pardo per la miglior regia, *Wo Hai You Hua Yao Shuo (When night falls) *di Liang Ying (Concorso internazionale), anche produttore e sceneggiatore, è un coraggioso e durissimo film di denuncia sulla pena di morte in Cina, sul funzionamento assurdo, kafkiano, dell’apparato burocratico. Quest’ultimo, noto per essere un uomo pacifico, avrebbe ucciso sei poliziotti di Shanghai dopo esser stato picchiato dalla polizia per aver guidato una bicicletta priva di targa. Tutto filmato dal punto di vista della madre del condannato, sempre vestita di nero, siamo dall’inizio alla fine in una tomba: quella della libertà e della dignità umana. Ma la metafora è estesa anche all’intera società cinese. La camera fissa, malgrado la qualità di numerose inquadrature, poggia sull’interprete della madre, An Nai, anch’essa premiata (Premio per la miglior interpretazione femminile) e in effetti attrice pregnante, sempre in equilibrio tra pudore e dolore. Aiutata dagli attivisti per i diritti umani, sua nuova famiglia, l’unico momento in cui si manifesta lo stato, è quando gli viene comunicata la sentenza, già eseguita, senza che lei abbia potuto rivedere il figlio, senza che abbia potuto difenderlo. Prendendo un caso giuridico complesso – c’è l’abuso di potere ma c’è anche l’omicidio di sei poliziotti – lo spettatore viene immerso in una presa di coscienza senza sconti, non ha possibilità di catarsi, siamo di fronte alla nudità della morte: fisica e di quella del senso della vita per un essere umano biologicamente vivo. Ma l’exploit maggiore del film è forse un altro: trattare del dolore per l’assenza di un essere che non si vuole dimenticare ma che per il mondo intero è un assassino. E quindi meritevole di essere dimenticato.

C come Cina (n.2). E finiamo con la vita. People’s park di Libbie Dina Cohn e J.P. Sniadecki (Cineasti del presente) è un documentario che andrebbe mostrato non solo a un pubblico di cultura, ma anche nelle scuole, nelle università, nelle piazze dei paesi, e anche in quelle di città, per poi discuterne con chi l’ha visionato. Un antidoto al razzismo e non solo questo. Sono 78 minuti di riprese in piano sequenza, vale a dire senza alcun stacco di montaggio. Questo approccio, che avrebbe fatto felice uno dei più importanti teorici delle storia del cinema, André Bazin, il quale vedeva nel piano sequenza il procedimento principale della specificità del cinema come arte principe nel rappresentare la realtà nel mondo moderno, diventa un vortice straniante ed estremamente affascinante per il luogo dove è applicato e la sapienza delle riprese, che riescono quasi a creare un montaggio interno grazie ai movimenti di camera (i due registi sono anche autori della fotografia, del suono e del montaggio). Si tratta di un viaggio nel celebre parco di Chengdu, situato nella provincia di Sechuan: tra la sua gente e sulla maniera di come essa lo “vive”: i numerosi momenti di comunione registrati fanno voler più bene all’umanità e ci si rende conto che esistono ancora luoghi dove il senso della comunità è ancora molto vivo, malgrado l’invasione della televisione e l’abbrutimento in solitudine che ne consegue. Il parco non dev’essere molto conosciuto dai turisti: siamo stati attenti e non ci è parso di scorgere nessun turista straniero, solo quelli interni. Eppure è un parco delle meraviglie: in qualche momento ci si annoia ma dura poco perché la sorpresa di quello che riescono a inventarsi gli abitanti di Chengdu in questo grande parco, verdissimo e che lascia invisibile la città, è praticamente continua. Delle invenzioni di sceneggiatura per un film di finzione non sarebbero riuscite così bene a rappresentarci un umanità così vivida.

G come Guest. Ma Locarno vuole fare concorrenza a Venezia? A Cannes? O alla festa di Roma, versione Marco Müller? In dieci giorni sono passati sul tappeto rosso Ornella Muti, Charlotte Rempling, Renato Pozzetto, Alain Delon, Gianni Morandi, Elsa Martinelli, Gael Garcia Bernal (l’attore messicano interprete di No che ha recitato anche con Almodóvar e narrato Che Guevara da giovane nel film di Walter Salles I diari della motocicletta), Johnnie To (maestro del cinema d’azione di Hong Kong) e quel gran signore di Harry Belafonte. E agli altri festival cosa resta? Venezia con la cura dimagrante voluta dal neo-direttore Barbera rischia grosso e rischiamo di annoiarci. Ci rifaremo con il festival di Roma dove Müller promette le consuete overdose di passerelle, oltre che di film, che ben gli conosciamo.

**L come Locarno. **E Leopardo. La sigla con il leopardo che sfila in orizzontale su sfondo giallo ruggendo è la più bella tra i festival contemporanei e seconda solo a quella di Cannes con cui rivaleggia un po’ ma che resta comunque inarrivabile.

L come Leviathan. Mai visto un film così. Leviathan (Concorso internazionale) è un documentario di poesia, visionario, pittorico, prossimo al cinema sperimentale e all’astrazione. In Italia abbiamo Pietro Marcello – autore di straordinari documentari poetici come Il passaggio della linea (edito in dvd da Internazionale) e La bocca del lupo – ora ci sono anche lo statunitense Lucien Castaing-Taylor e la francese Véréna Paravel, autori del documentario. Siamo nelle stesse acque che solcava la baleniera del folle capitano Akab all’inseguimento di Moby Dick, ma qui le parti sono rovesciate: il Leviatano è il peschereccio, un mostro meccanico che inghiotte centinaia e centinaia di pesci, triturandoli, facendoli a pezzi, massacrandoli senza pietà. Accumulando un gran quantità d’inquadrature da angolazioni inattese, talvolta anche impensabili, il film riprende tutto dal punto di vista dei pesci, facendoci sentire al loro posto laddove un documentario di tipo classico che volesse illustrarci la meccanica della pesca probabilmente ci annoierebbe. Ma è anche un riflessione poetica e profonda sul cinema, sulla natura, perfino sul senso delle cose e della vita.

M come marginali. Vincitore del Pardo d’oro per la sezione Cineasti del presente, Inori, del messicano Pedro González-Rubio è un viaggio breve (72 minuti) e minimale in un villaggio giapponese ormai fuori del tempo e svuotato di ogni speranza di futuro, “le urla dei bambini non ci sono più da tanto tempo” come dice uno degli abitanti. Prodotto dalla grande regista giapponese Naomi Kawase, presente al festival con il suo figlioletto e alcuni documentari intimi, restano nella mente tante belle inquadrature simboliche di un micro-paradiso dimenticato e foriero di spiritualità e diversi personaggi rappresentanti di un antropologia umana in via di dissoluzione, in particolare un incredibile vecchietta. Ma la fatica del vivere e il senso di abbandono che pervade gli abitanti del luogo, ultimi resistenti di un vecchio mondo, alimenta sottotraccia nello spettatore un sentimento misto di serenità e malinconia, speculare alla struttura del villaggio, costruito lungo i due fianchi di una strada asfaltata che pare abbandonata dall’umanità.

M come Magic Mike. Non sono un ammiratore sfegatato di Steven Soderbergh, anche se ho ammirato il dittico del Che e apprezzato diversi suoi lungometraggi, ma il suo film, proiettato in piazza Grande, è una buona commedia di denuncia sulla mercificazione dei corpi mediante un gruppo di ballerini-spogliarellisti in un night per donne. I corpi di Magic Mike sono levigati, a cominciare da quello del protagonista di provenienza proletaria, ma il regista riesce nell’impresa di rendere ogni personaggio un personaggio, con una sua caratterizzazione precisa. Insomma, riesce a trovare l’umano sotto al corpo levigato. Inatteso finale compreso, dove dopo tanta esposizione di corpi affiora la delicatezza, la grazia.

P come piazza Grande ovviamente, e non come parcheggio. Uno spettacolo la quantità di folla che si accalca all’aperto per vedere dei film. Nessun altro festival intermedio riesce a far questo. La fila di sedie è lunghissima, e forma come un serpentone seguendo il movimento della piazza, le sue curve.

**P come Pozzetto. **Il premio nella serata finale al celebre comico lombardo, icona del cinema popolare degli anni settanta e ottanta, è stata la cosa meno divertente e più burocratica della cerimonia di premiazione e forse di tutte le presentazioni di cinema fatte in piazza, durante gli undici giorni della manifestazione. Pur gentile e cortese, il signor Pozzetto oggi come oggi è un signore molto serio, duole dirlo.

P come papà-festival. Padre Oliviero – Olivier Père nella versione francese – riesce a farsi identificare con il festival, come Gilles Jacob o Marco Müller, ma in maniera leggera e alla mano. Straordinario direttore a Cannes della Quinzaine des Réalisateurs per sei anni, scopritore di molti dei talenti più interessanti degli ultimi anni (ovviamente in Italia come sempre invisibili), tra cui quello dei fratelli Safdie presenti a Locarno (si veda più sotto), per l’ex critico cinema del settimanale francese Les Inrockuptibles la riconferma alla guida del Festival di Locarno per un nuovo triennio pare quindi inevitabile. Et puis il est si jeune!

S come Safdie. Erano presenti solo con un cortometraggio proiettato in piazza Grande i fratelli Josh e Benny Safdie, ragazzi spiritosi, anzi buffi, e per nulla montati, speranza di un cinema indipendente Usa davvero indipendente (che in Italia, lo vogliamo ripetere fino alla noia, non arriva) dalla formattazione del Sundance Film Festival più che da quella di Hollywood. Il loro corto, The black balloon, senza pretendere a nulla di geniale, è un delicato e gioioso inno all’anarchia umanistica fatta con pochi mezzi in un momento grave di crisi internazionale. Un palloncino nero si stacca dal gruppo e, come avesse un’anima – o forse perché gliela diamo noi, chissà –, si va a posare di volta in volta su un personaggio diverso, alla ricerca di un amico, di un’umanità. Umoristico e poetico, con un grazioso finale, costituisce anche un omaggio a un bel classico del cinema francese: Le ballon rouge di Albert Lamorisse, film di appena 36 minuti del 1956 di cui uno dei maestri del cinema internazionale, il taiwanese Hou Hsiao-hsien, nel 2007 con Le voyage du ballon rouge ne aveva già diretto un ottima rivisitazione.

S come Sri Lanka. Light in yellow breathing space mediometraggio ispirato e poetico di Vimukthi Jayasundara, giovane regista dello Sri Lanka (ex Ceylon), i cui lungometraggi sono stati fortemente apprezzati al momento della loro proiezione in festival come Cannes e Venezia, e dedicato al padre recentemente scomparso, riesce a far equivalere il concetto di sperimentazione giocosa con i giochi della fantasia infantile (presto una breve intervista al regista). Dov’è la differenza? Ci ha lasciati pieni di felicità alla fine della visione, benché sia l’addio di un figlio al padre, ed è una delle cose più belle e inconsuete viste a Locarno. Più convincente del lavoro presentato dal filippino Raya Martin The great cinema party, il cui mediometraggio è stato proiettato assieme a quello di Jayasundara, rimasto un po’ troppo a metà strada: gioco tra amici cinéphiles o opera della memoria (la lunga parte iniziale, molto bella, giocata sui materiali di repertorio relativi alla travagliata storia filippina, tra colonialismo e conflitti)? Martin è probabilmente un grande autore del futuro, ma a volte, forse per la giovane età, cade in narcisismi e sperimentazioni incompiute da scolaretto.

U come Ultima vez que vi Macau (Concorso Internazionale - Menzione speciale della giuria per il personaggio di Candy). Quest’omaggio a Macao, tra documentario e diario onirico sull’ex-colonia portoghese che João Pedro Rodrigues, regista portoghese sempre più grande, ha realizzato con la complicità dell’amico João Rui Guerra Da Mata è un bellissimo film. La prima sorpresa vera del festival. Ma rimandiamo all’intervista fatta al regista, prestissimo sul sito di Internazionale.

W come Weerasethakul. Il grande regista tailandese, presidente della giuria, riproponeva il documentario-making of Mekong Hotel di cui abbiamo già parlato da Cannes. Di lui proporremo presto qualche brano d’intervista. Ci si aspettava che premiasse un documentario fascinoso e sperimentale come Leviathan. Ha invece premiato, assieme al resto della giuria, una storia di fantasmi e di apparizione, sotto una forma filmica relativamente classica. Lo abbiamo già scritto, lo ripetiamo: Weerasethakul torna sempre ai suoi fantasmi come Monet alle sue ninfee.

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