22 dicembre 2014 13:13

Il FilmMakerFest, fondato nel 1980 e diretto da Luca Mosso, è un piccolo festival milanese, sempre meno piccolo e sempre più in crescita, dedicato al cinema d’autore avanzato e di ricerca. Questi trovano sempre più la loro espressione migliore nel documentario d’autore, come ha sancito più che mai l’edizione di quest’anno del festival. Tra questi, il documentario di Daniele Gaglianone Qui, ora nelle sale, e l’incredibile documentario sulla guerra civile in Siria, Silvered water, Syria self-portrait, anche questo di prossima uscita.

Durante l’ultima edizione del FilmMakerFest, svoltasi di recente a Milano (28 novembre-8 dicembre), ogni giorno ero impressionato nel constatare che se tanto di quel cinema d’autore di fiction che ancora innova ricercando una profondità radicale continua a essere contaminato dal documentario – con delle significative eccezioni, talvolta, come Mommy, il capolavoro di Xavier Dolan ora nelle sale e che, come avevamo scritto da Cannes, era la nostra Palma d’oro del cuore (e di cui ha scritto di recente Christian Raimo) – molte delle cose più forti, originali e semplicemente emozionanti del cinema d’autore e di ricerca erano appunto dovute al documentario d’autore. Una tendenza che ci pare importante mettere in evidenza. Con qualche eccezione significativa come il film d’apertura del festival, Jauja dell’argentino Lisandro Alonso, che sulle pagine di Internazionale avevamo citato come il film più bello dello scorso Festival di Cannes, scegliendolo tra tutti i film visti nelle varie sezioni (il secondo era appunto Mommy, in Concorso) e di cui avevamo anche scritto su questo sito in un resoconto generale sul festival. E come il più che notevole Cavalo Dinheiro del portoghese Pedro Costa, già vincitore a Locarno e di cui abbiamo scritto nel resoconto dal festival con annessa intervista al direttore Chatrian.

Ecco allora una scelta dei film visti. Avrebbero potuto essere molti di più, la qualità era alta, ma preferiamo parlare di alcuni titoli che hanno particolarmente spiccato. Oltre che sintomatici della tendenza che dicevo, hanno tutti un rapporto con questioni al momento fondamentali come la registrazione della dissoluzione o della ricostituzione del senso di comunità, la fragilità psichica degli esseri umani in questo particolare momento storico, l’uso etico dell’immagine.

Qui di Daniele Gaglianone (Concorso). “Non è più una questione di Tav sì o Tav no, ma è una questione di essere contro o meno il sistema. Lo stato ha deciso e tu ti devi adeguare, punto e basta. Viviamo in un paese di democrazia rappresentativa: se non sei d’accordo, la prossima volta voti per quelli che non vogliono l’opera. Per il tuo documentario incontrerai dei sì Tav, intendo non dei politici, ma persone comuni?”, chiede un esponente delle forze dell’ordine al regista nel prologo del film. “Credo di sì”. “Non so se ne troverai perché è a favore della Torino-Lione solo chi non conosce il progetto”.

Il doc di Gaglianone sulla questione della Torino-Lione nella Val diSusa – già presentato con successo pochi giorni prima al Tff (Torino Film Festival) – va assolutamente visto perché pone problemi di fondo sulla democrazia e sulla trasparenza dell’informazione ritenendola una questione nodale di questi ultimi decenni, che sta divenendo sempre più urgente e con cui probabilmente saremo tutti chiamati a confrontarci nei prossimi anni: del resto è un documentario d’autore, quindi l’opposto del documentario – o reportage – giornalistico. Si tratta cioè di un punto di vista, e di un punto di vista forte che s’impone allo scopo di far riflettere sull’insieme dei punti di vista che il documentario di natura giornalistica invece deve – o dovrebbe – rappresentare.

Non c’è quindi nessuna opzione cosiddetta bipartisan, nulla della melassa del politicamente corretto: lo stesso Gaglianone nell’incontro con il pubblico che ha fatto seguito al film ha spiegato che avrebbe anche potuto inserire gli incontri con i pochi pro Tav, sostanzialmente i responsabili politici. Precisando che forse ha fatto loro un favore non inserendo le testimonianze di quest’ultimi, ha spiegato che la scelta è stata quella di far vedere – finalmente – questi cittadini “terribili” o “fuori dal mondo”. Farci vedere i loro volti, far udire la loro voce, le loro ragioni. Cittadini normalissimi, spesso molto simpatici e assolutamente pacifici, spesso persone anziane o di mezza età: le misure a cui sono stati sottoposti costoro dall’autorità giudiziaria sono magari ridicole ma nondimeno pesanti, in maniera più o meno marcata a seconda dei casi. I denunciati sono mille su 60mila valsusini: “il più alto numero in Italia di denunciati in un territorio così circoscritto”, ha dichiarato l’autore. Fuori campo si sente la voce, quasi irreale, del procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, quest’ultimo mai in campo e nemmeno realmente citato per la verità. La scelta di Gaglianone è proprio di mettere in campo, di farci vedere questi terribili (e molto presunti) antagonisti: invece della “marmaglia” giovanile che spacca tutto impedendo il “progresso”, noi vediamo e sentiamo qui (è il caso di dirlo) anziani o uomini e donne maturi. Non i galli del piccolo villaggio di Asterix che si difendono dall’invasore, ma cittadini intelligenti che leggono e s’informano, e nelle cui case, strade, agglomerati compaiono proprio tutte le comodità del mondo moderno e i suoi mezzi di comunicazione, o presunti tali. Indirettamente, il film ci pone la domanda perché tutto questo non sia stato fatto prima. Forse perché la caricatura non sarebbe stata possibile è la risposta che, inevitabilmente, viene in mente.

Scorre così una galleria di personaggi unici, dieci ritratti per l’esattezza, un flusso mai noioso di richiesta di democrazia partecipativa e, soprattutto, di stato di diritto: la gestrice di un agriturismo, che, per non farsi portare via il terreno, si è legata a dei cancelli con delle manette acquistate in un sex shop in modo che la polizia non riesca ad aprirle e a portarla via pare la testimonianza più simpatica, anche grazie al suo brio. Ma a commuovere maggiormente sono forse due testimonianze più o meno legate agli apparati dello stato: l’ex carabiniere contestatore della Tav ferito gravemente da un razzo sparato ad altezza d’uomo durante una manifestazione pacifica a cui avevano partecipato alpini e bambini, e che nonostante tutto cerca di non rovinare a suo figlio l’immagine delle forze dell’ordine. E il sindaco, nei cui occhi e nella cui voce è ancora ben visibile l’emozione di chi si sente offeso, se non oltraggiato, dall’essere stato quasi assimilato a un capo eversivo – tragicomico il suo fiero racconto di quando, in piena notte, chiamato dal prefetto per rimuovere i blocchi rifiutò lasciando senza parole il prefetto – in quanto convinto servitore dello stato e della comunità a cui appartiene.

Qui

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Ci sarebbero tante altre cose da dire sul piano contenutistico, registico, stilistico, perché Qui è un film solo apparentemente semplice, a cominciare dall’uso degli anonimi filmati da Youtube che a modo loro suppliscono al deficit dell’informazione ufficiale, la quale resta sempre fuori campo, al pari dei politici. O non c’è, o se c’è (il Tg1) è un’altra voce irreale che pare raccontare ai cittadini un mondo virtuale, fatto di date, sigle, etichette, nomi astratti, avulsi dal contesto reale filmato invece dal regista.

Per il momento aggiungiamo solo un’altra considerazione. Quel che mette in evidenza lo stesso Gaglianone – al di là che chiunque conosca da vicino il progetto, sempre stando al regista, gli è contrario (a parte politici e consorterie vari) per le questioni più diverse, ambiente, salute – è la modalità con cui tutto questo viene imposto, letteralmente calato dall’alto, dunque inaccettabile. Il fatto di nemmeno “suonare al campanello”, come dice uno degli intervistati, è l’elemento centrale, la questione di cui davvero tratta il film. Ora succede qui”, ma domani accadrà ancora (in un altro) “qui”. Può riguardare chiunque, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento.

Molti abusi socio-economici sono stati ostacolati o bloccati in passato, e questo è il sale della democrazia, dei suoi processi. Il doc di Gaglianone suscita nello spettatore una riflessione forte che sfocia in una richiesta pressante: per la buona tenuta del sistema democratico è fondamentale il rispetto dei suoi processi e la conseguente richiesta consapevole da parte di tutti che siano rispettati. Lo stato di diritto è infatti il fondamento in cui i cittadini di una repubblica democratica si riconoscono, una questione su cui non si può transigere. È forse pensare il contrario a essere realmente eversivo.

Perché, al di là di tutto, bisogna capire che il documentario di Gaglianone è una provocazione (tutto sommato gentile) che registra, in fondo,un’accorata richiesta di ascolto e fiducia umana e morale da parte dei cittadini verso la politica e ancor più verso le forze dell’ordine perché dopo quanto accaduto al G8 di Genova nel 2001, in questo paese la ferita aperta con gran parte dei cittadini, anche non di sinistra, non si è mai più realmente rimarginata.

Altra riflessione sull’immagine, i mezzi d’informazione, la vita vera degli esseri umani,e il contrasto d’irrealtà che ne consegue è quella proposta dal capolavoro Ma’a al Fidda (Silvered water, Syria self-portrait) di Ossama Mohammed e Wiam Simav Bedirxan (Concorso), già presentato quest’anno oltre che a Cannes al Torino film festival e al Festival dei popoli, e appena uscito trionfalmente in Francia, con ampie e molto elogiative recensioni su Le Monde e Libération. La neonata Wanted ne annuncia l’uscita nelle nostre sale per la prossima primavera con il titolo Eauargentée - Autoritratto siriano. In questo documentario a due voci il reale della guerra da reportage o notiziario oggettivo da cui siamo sommersi quotidianamente si muta in un soggettivo viaggio intimo, poetico e, a più tratti, onirico, dimostrando che si può fare cinema sperimentale anche con il documentario che tratta di eventi cruenti di stretta attualità senza che questo paia fuori posto, anzi.

Sorta di dialogo a distanza tra due persone e due luoghi, tra chi è esule residente a Parigi, il regista siriano Ossama Mohammed, già autore di due lungometraggi di fiction vietati in Siria (Etoiles de jour del 1988 e Sacrifices del 2002, selezionato a Cannes), e chi vive invece sul posto, a Homs, città siriana duramente colpita, dove dominano problemi reali come mangiare e restare in vita. È il caso di Wiam Simav Bedirxan, attivista curda, coautrice del film. La donna, che ha perso i genitori, scrive al regista dicendo che vuole filmare, come strumento di sopravvivenza. È l’inizio di un’intensa collaborazione, tra lei che filma i morti per riuscire a sopravvivere e lui che consiglia, suggerisce. Simav in francese significa eau argentée (Acqua argentata). Sarà il titolo del film.

C’è chi filma e muore e c’è chi filma e poi uccide o tortura, ci sono tanti morti e tanti vivi – per poco o molto tempo – in questo film. Per tutti c’è un vero sentimento di rispetto che sorge dal film creando in tal modo una consapevolezza accresciuta da parte dello spettatore. Il punto di partenza del documentario del resto è proprio il filmato di un ragazzo arrestato e torturato dai poliziotti di Assad, e poi da quest’ultimi postato su Youtube. Youtube, rispetto al film di Gaglianone, è onnipresente, quasi un deus ex machina, ma a cui si sovrappone, con questo film, un deus ex machina a due teste, volto a dargli senso. Senso umano, senso morale.

Il film è così anche teorico, anche perché ricrea al suo interno la dialettica tra le immagini anonime sparse, che troviamo in giro su Youtube, ma anche quelle che il singolo crea e tiene per sé, e il creatore d’immagini, l’artista che riflette su ogni immagine, su ogni singolo montaggio di essa, seguendo un percorso, più o meno complesso, estetico e interiore. Tra chi vive la realtà e chi la reinventa con il fine di proporre la sintesi di una visione, un punto di vista riflettuto agli altri.

C’è tuttavia una sorta di grande dolcezza che il film sprigiona, malgrado i numerosi momenti terribili, crudi, come nella sequenza dove si succedono i volti inanimati, immagini davvero “grezze”, di bambini morti: montate in successione senza commenti (ri)acquisiscono una forza che le immagini provenienti dai notiziari di tutto il mondo a loro volta in successione continua troppo spesso depauperano di forza tragica, rispetto umano, dunque di significato. Anche al di là della volontà degli stessi giornalisti, sia chiaro poiché è una meccanica. Rompere almeno un momento questa meccanica vuol dire riacquistare il senso dell’immagine travolto dal blob informe del sistema mediatico, il senso della sua unicità, anche quando è tragica, e forse ancor più quando lo è: ecco una delle questioni fondamentali poste dal documentario.

Un’altra, direttamente conseguente alla precedente, è quello di ricavare omogeneità dall’eterogeneità dei materiali, dalla variabilità di toni e registri nella narrazione. Dall’instabilità – geografica e di ubicazione, umana ed esistenziale, di forme del cinema e dell’immagine – (auto)generare una forma di stabilità. Alla fine quello che emerge è un ibrido tra romanzo autobiografico e saggio teorico sul cinema, costruito per capitoli che dà luogo a un potente affresco su una situazione di non-vita ma dove accanto alla morte la vita c’è. Malgrado tutto. È uno dei miracoli di quest’opera, il potere del cinema. Un modo di trasmettere un messaggio umano ed etico a tutti. Sfidarsi a vedere film del genere aiuta a creare consapevolezza, a riacquistare umanità verso chi è più sofferente, e in estensione verso chiunque.

Nella seconda parte vediamo un bambino orfano di padre camminare da solo, scortato solo dallo sguardo della camera. Porta i fiori alla tomba del papà, poi sembra andarsene. C’è un lungo stacco, con altri montaggi, altre sequenze, poi il bimbo torna in campo e guarda e parla della bellezza delle foglie di una pianta che spunta dall’asfalto. Poi c’è un nuovo stacco. Il bambino corre a cogliere un fiore dal rosso intenso, chiede quale strada prendere, cerca di sceglierne una dove non ci siano cecchini. “Spara, non spara?”. Il bambino corre. Nulla accade. Lo ritroveremo a camminare ancora più avanti, intanto si stacca su un filmato come in elevazione verso l’alto del cielo, un canto, a sua volta, s’innalza: “A cosa somiglia il mondo esterno all’assedio di Homs?”. Forse alla leggiadria con cui un bambino cerca di sopravvivere. Spiritualmente, prima ancora che fisicamente.

Silvered water

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Si può vivere in una dimensione che si vuole eminentemente spirituale,e avere lo spirito, l’interiorità, più o meno in poltiglia. Anzi,si può averla proprio per questa ragione. Liahona della statunitense Teresa Sanders (Fuori Formato) è un immersione nella comunità dei mormoni, così presente nell’iconografia della conquista delle praterie del west. Il documentario è presentato nella sezione più sperimentale, ed è infatti quasi interamente costruito con materiali di repertorio. Ma non siamo nell’ambito dei documentari alla Michael Moore, che ha rovesciato l’approccio dei documentari spiritosi della Walt Disney degli anni sessanta in un sistema di pamphlet via via sempre più ripetitivi. Qui, fin dall’inizio – delle immagini notturne con luci sullo sfondo, prima nel silenzio poi delle sonorità musicali emergono gradualmente – siamo in una perenne dimensione onirica, irreale, evocativa. Spirituale. Immagini di una natura onnipresente, di cieli incredibili, di montagne rocciose entrate nella mitologia e nell’immaginario moderno si alternano a immagini più cittadine forse di Salt Lake City. Una dimensione mnemonica domina il documentario. Un immaginario che si è sedimentato in noi, nel nostro inconscio e nella nostra interiorità, è rievocato con finezza dall’inizio alla fine. A questa mitologia iconografica si sovrappone il racconto sul profeta Joseph Smith, comprese le contestazioni che vi furono, di cuila chiesa mormone è la confessione più nota e con il più alto numero di adepti tra quelle ispirate dai suoi insegnamenti.

Ma pur essendo fatto con rispetto il film rivela, anche con l’ausilio di dati precisi, quanto il dominio di questa comunità religiosa sia socialmente devastante per gli abitanti di tutto lo Utah. Ecco i dati raccolti nel film, tutti inframezzati da frasi tratte dai testi sacri o dai discorsi, dove tornano spesso concetti come quello di castità e virtù, dei vari profeti-presidenti della chiesa mormonica che si sono succeduti fino ad oggi: lo Utah è lo stato religiosamente più omogeneo degli Stati Uniti: circa il 63 per cento degli abitanti dello stato dichiara di appartenere della Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni (i mormoni); i mormoni vivono in media dai 5 ai 10 anni in meno degli altri statunitensi; lo Utah è al quarto posto nel paese per l’uso di antidolorifici a scopo non terapeutico; alla popolazione dello stato sono prescritti antidepressivi più che in qualsiasi altra parte del paese – il doppio della media nazionale; la ricerca su internet di protesi mammarie da parte dei residenti di Salt Lake City è del 74 per cento più alta della media nazionale; Salt Lake City ha la più alta percentuale pro capite di chirurghi estetici rispetto a qualsiasi altra città statunitense; lo Utah è al primo posto negli Stati Uniti nel consumo di pornografia online; la violenza sessuale è l’unico crimine violento superiore alla media nazionale; lo Utah ha la media più alta di giovani sposi; su un 24 per cento di matrimoni mormoni che si concludono con un divorzio, solo per il 6 per cento di essi è chiesto l’annullamento in chiesa; lo Utah ha il tasso più alto di nascite del paese e la popolazione più giovane di qualsiasi altro stato; lo Utah è lo stato con la prevalenza più alta di pensieri suicidi tra gli adulti; il suicidio è la seconda causa di morte tra gli adolescenti dello stato.

Conclusione: la religiosità spinta all’estremo abbinata a regole rigide all’eccesso, ovvero l’interiorità dell’essere umano, e l’eventuale sentimento spirituale, sono ridotti in poltiglia.

Lupino – film vincitore del Concorso presentato al festival in anteprima mondiale – di François Farellacci (regia, sceneggiatura e montaggio) e Laura Lamanda (sceneggiatura e montaggio), è uno dei documentari più illuminanti e più umani sugli adolescenti residenti nelle periferie mai visti da chi scrive. Il film segue gli adolescenti di una zona periferica e popolare di Bastia, in Corsica, aderendo ai loro corpi, facendoci sentire il loro modo di parlare concitato e pieno di volgarità infantili, ma che fanno quasi tenerezza, divertono: in un piano-sequenza iniziale, dominato da un ragazzino a torso nudo che cammina e palleggia sulla strada asfaltata, è già restituita tutta la loro vitalità, la loro spontaneità, il loro camminare caotico: “Ma quanto è stretta la figa di mia madre… Ma quanto siamo strette in fondo a questa scatola, cantano le sardine, cantano le sardine. Yohan, puttana la tua madre… Che tu crepi di un cancro al piede…Yohan devo palleggiare fino in fondo. Se ci riesco mi succhi. Succhiarti è un po’ troppo. Allora t’incula. Mi fai una sega! Se ti acchiappo ti butto nell’immondizia”.

Poi torna il canto delle sardine strette in scatola, che pare quasi una metafora della loro situazione di adolescenti e soprattutto di futuri adulti. Perché questo documentario è anche l’annuncio, il presagio di una possibile futura situazione senza via d’uscita. Per ora, dopo il prologo iniziale dalla fotografia sporca e dalla sonorità rock quasi rabbiosa dove si vede come un filmato casalingo, è il momento per i tre giovanissimi amici del divertimento estivo lontano dai genitori. Predomina un sentimento di possibilità aperte, di orizzonte aperto. Più avanti due dei ragazzi parleranno di quando l’aria è tersa e si vede il lembo di terra opposto: un presagio di pioggia per il giorno dopo. È un succedersi di piccole cose, ben scelte e ben filmate. Per ognuna di esse, come anche solo l’attesa per prendere l’autobus, c’è un piccolo show. Sanno divertirsi con nulla, un bel senso di comunità d’appartenenza è delineato: “riempimi la testa di altri orizzonti, di altre parole”, canteranno più tardi sulla spiaggia, in una sequenza notturna. E così via. Questo bel ritratto di vita quotidiana si conclude con uno dei ragazzi che guida l’auto in discesa mentre albeggia, avvolto da una colonna sonora di rock elettronico, in opposizione alla sequenza iniziale sopra citata, una lenta salita diurna a piedi e a più voci: i caseggiati di quel grande agglomerato urbano scorrono veloci, la strada – la linea orizzontale – è via via sempre più inclinata e obliqua. Un sentimento di solitudine affiora nello spettato respecchio, forse, di un sentimento possibile provato dal ragazzo. Come una festa finita, prima di una partenza verso l’incognito.

Ci soffermiamo veloci su Buffalo Juggalos dello statunitense Scott Cummings (Fuori Formato), ritratto di una comunità di tipi dipinti di bianco in volto e tatuati sul corpo, sorta di freaks totalmente mortiferi, forse fantasmi di quel che fu il sentire umano, nella desolazione postindustriale dello stato di New York. Dice molto in mezz’ora e senza parola alcuna. I mimi, lo sappiamo, sono muti: solo suoni, le inquadrature quasi sempre a camera fissa si succedono descrivendo lo stato di non-vita di questa comunità, di cui è impossibile dire, all’opposto dei ragazzi di Lupino, cosa li leghi, li saldi nel profondo. L’inquadratura iniziale dice già molto: un’auto da loro guidata fa avanti e indietro colpendo dei carrelli da supermercato sparsi lungo la strada. Sono quasi in posa dentro e soprattutto sopra l’automobile. Mimi abbrutiti dai processi sociali? Mimi di un (loro) nulla di cui sembrano compiacersi? Poesia uccisa coscientemente perché divenuta ormai impossibile? Egocentrismo e narcisismo messi sull’altare da una sorta di banda all’Arancia meccanica? Cattiva davvero? L’interpretazione è davvero lasciata allo spettatore: due uomini sempre con il viso dipinto sono ripresi frontalmente in un letto, poi si baciano improvvisamente. Un altro, in una giornata piovosa, spacca il vetro di un auto allo scopo di prendere qualcosa “in prestito”. E così via. Come se fossero consapevoli di essere la metafora dell’assurdità di una vita in un modo ricco, opulento, e privi di prospettive reali e avessero deciso di fare di loro stessi una rappresentazione simbolica di questo stato di vita riappropriandosi in maniera eccentrica, ai limiti del non sense oltre che della legalità, degli spazi urbani.

Infine, due comunità: una, con l’etichetta data dalla società di folli, e un’altra, che è la società, ma che forse nasconde sotto una patina di razionalità, elementi di follia, di assurdità. Cominciamo da quest’ultima.

Ulrich Seidl, reghista di Im Keller (In the basement) presentato a Venezia, è tra i registi più odiati del cinema contemporaneo (tra cui i Cahiers), perché accusato spesso di odiare l’umanità, di misantropia. A noi piace invece molto, lo troviamo originale, ironico e profondo.

Qui propone un documentario allucinante sulle manie – ossessive, incredibili, allucinanti quanto “ordinate” – sessuali e non, della borghesia austriaca, manie coltivate nelle loro cantine. È una discesa a 360 gradi in un mondo insospettabile, non meno sulfureo e bizzarro dei freaks di Buffalo Juggalos. Si comincia: anche qui le inquadrature a camera fissa dominano, con un tizio che fa esercizi lirici chiuso in un bunker sotterraneo dove a delle gigantesche travi di ferro sono appesi dei pannelli con delle sagome di uomo, come quelle per chi si allena a sparare a bersagli umani. Stacco sulle vie della cittadina, una zona residenziale ben linda e squadrata, tipicamente germanica. Si torna all’interno: in un seminterrato un uomo in canottiera osserva un gigantesco serpente – un pitone? un boa? – chiuso insieme a un topolino bianco in una sorta di grande cassa dal vetro trasparente. Poco dopo una donna anziana va a prendere dal ripostiglio in cantina un neonato messo dentro una scatola: lo prende in braccio, lo culla, gli sussurra parole dolci: l’illusione ottica funziona bene. È una bambola. Si torna al tipo iniziale del bunker e scopriamo che fa una conferenza a suoi amici sull’uso delle armi. Un altro uomo mostra orgoglioso una parete di teste di animali uccisi e impagliati: tutti cervi o altri animali dotati di ampie corna, presumibilmente di età varia. Poi c’è il tipo fissato con la sua orchestrina di paese e con i cimeli del passato, in particolare nazisti: li liscia, li spolvera ossessivamente e a lungo, come il quadro che raffigura un Hitler di profilo. Poi c’è il guardiano notturno di un teatro: imponente, quando è in casa il suo grande piacere è quello di essere sessualmente assoggettato, dominato, schiavizzato dalla moglie, anche lei piuttosto imponente. Lo fa mettere nudo e passare l’aspirapolvere, pulire con la lingua il vetro fumé della doccia. Oppure mettere a posto la cucina con dei pesi legati al pene. Fino al rapporto orale con lei seduta sul wc.

Im Keller

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Divertente, a tratti molto, in questa fiera delle curiosità più o meno mostruose celate dalla gente comune emerge il ritratto di un rapporto sereno, ludico e spesso compiaciuto con la propria aggressività se non il proprio sadismo. Ma il potenziale squilibrio mentale inserito nell’asse della normalità con perfetta chirurgia teutonica, delinea però una società forse priva di vita reale, del movimento della vita, perfettamente visibile anche quando Seidl cerca il contrasto accostando nel montaggio alle anticaglie nostalgiche naziste l’odierno mondo disinibito. Perché, anche grazie alla sapiente costruzione delle inquadrature da parte del regista, emerge un mondo perfetto da orologio a cucù, glaciale, congelato, immobile.

Les Tourmentes (Concorso) del documentarista belga Pierre-Yves Van der Weerd è girato in un istituto per persone con problemi mentali situato in Francia tra le montagne del Massiccio Centrale, nel Lozère, in pieno periodo invernale, circondati dalla neve, dal bianco, dal silenzio. Ennesima rappresentazione d’irrealtà partendo dal reale, alcuni individui dimenticati forse da tutti cercano di sopravvivere in questo limbo tra le sue tormente, esterne e interiori. Ma la tormenta, ci spiega una nota inserita all’inizio del film, è certo quel particolare fenomeno atmosferico che indica la tempesta di neve dove ci si disorienta e ci si perde, ma nel secolo scorso indicava anche un sentimento di malinconia provocato dalla durezza e dalla lunghezza degli inverni.

Si parte con un primo piano su delle mani i cui pollici ruotano lentamente, poi su due occhi. Una successione di piccoli dettagli, entrata minimale ma esplicita in un mondo perduto e ossessivo. Il tutto crea un ponte con quello dei pastori di quei luoghi, i quali, ci informa ancora il film, durante le transumanze usarono i loro greggi con intenzioni quasi sciamaniche, per “invocare anime sperdute o dimenticate”, due concetti, questi, ovviamente contigui: chi è stato dimenticato, infatti, è inevitabilmente sperduto nel limbo del tempo. Documentario a tratti di forte suggestione e poesia, l’auscultazione degli altri o del mondo circostante, pratica dimenticata perché obbliga a uno sforzo interiore di notevole intensità, pare uno dei temi del film, come anche quello della correlazione tra pratica magica, non per forza soprannaturale ma intesa come stato della mente dove l’intuizione è spinta al massimo, e osservazione scientifica empirica degli esseri umani. “Le tormente sono la cerniera tra due mondi, veli che separano quel che è da quel che è stato dimenticato”. Cosa è stato dimenticato? Tante cose, come quei tremila pazienti chiamati les égarés – i dimenticati – sotterrati in fosse comuni tra il 1880 e il 1980. Tutti dimenticati dalle loro famiglie, dal mondo: affiorano così testimonianze da un tempo lontano, dall’ottocento in poi: diagnosi cliniche dell’epoca che rivelano un mondo di sofferenza dovuto a credenze, superstizioni, pregiudizi. E cattive interpretazioni mediche. E poi emergono gli internati su ordine della chiesa cattolica. O decessi, ancora nel 1979, da tubercolosi polmonari. La quantità di sofferenza è enorme, auscultarla non è sempre facile. Nel 1956, una delle istitutrici, prima di perdere conoscenza, annoterà sul suo diario: “Mia sorella è morta. La tormenta mi renderà sorda. Geme come una bestia dolorante”.

Chi sono davvero i folli, chiusi nella loro prigione mentale? Sciamani incompresi, perché seguono strade non logiche? Alla fine, ilpastore-sciamano se ne va nella tormenta, solitario, privo di gregge, portandosi dietro i suoi segreti di ateo credente solo nelle forze della natura, e gli echi, ben udibili, dei nomi dei dimenticati.

Per chiudere, poche righe sulla retrospettiva dedicata al grande documentarista statunitense Lech Kowalski per altro presente durante buona parte della rassegna, anche perché ho avuto il piacere di partecipare con un testo alla monografia di saggi a lui dedicata e curata da Alessandro Stellino (Camera gun, il cinema ribelle di Lech Kowalski, ed. Agenzia X, 13.00 euro). Si tratta di un autore notevole, ormai molto stimato, realmente coerente nel costruire il suo percorso cinematografico e visceralmente interessato a chi è marginale, reietto, fuori dalle regole. Fuoriuscito dalla scena underground della New York anni settanta – pur essendo nato a Londra da genitori polacchi – la sua filmografia ha via via toccato le tematiche più disparate dopo i doc iniziali dalla connotazione più o meno punk-rock (Sex Pistols, ecc.).

Come quello che è comunemente ritenuto il suo capolavoro, East of paradise, film spaccato a metà come una mela, con una prima parte a camera fissa dove la madre del regista racconta la sua esperienza di deportata in un campo di lavoro sovietico, e una parte dove l’autore racconta invece se stesso, costituita da materiali eterogenei e piuttosto movimentati al loro interno: due mondi, due epoche all’opposto di cui si percepisce la forte cesura vengono messe gomito a gomito per contrasto. Ma il dolore comune alle due epoche fa da parziale filo rosso ai due segmenti. In Holy field, holy war ha trattato il tema della tranquillità della campagna polacca traumatizzata dalle trivelle delle compagnie petrolifere che vogliono estrarre il gas di scisto contribuendo all’effetto serra: sarà l’inizio di un’epica battaglia tra i contadini del posto e la multinazionale Chevron. In On Hitler’s highways, fatta costruire da Hitler per facilitare l’invasione della Russia, racconta la più antica autostrada del mondo, oggi divenuta luogo privilegiato di derelitti o marginali. In Chaplin in Kabul parla del dopo taliban e del dopo sovietici nella capitale dell’Afghanistan e grazie allo stridore tra le immagini girate sul posto e quelle di repertorio emerge una Kabul incredibile, che non esiste più, quasi uscita da una favola, dal Mito. E altri film ancora. Un cineasta da scoprire.

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