11 agosto 2017 12:43

Una gran quantità di film di notevole interesse e almeno due film eccellenti, anche se nessun capolavoro, caratterizzano almeno finora, questa settantesima edizione di Locarno.

Il primo titolo eccellente è Mrs. Fang (Concorso), opera di uno dei più grandi registi viventi, anche se da noi poco noto, che ha realizzato soprattutto documentari d’autore, il cinese Wang Bing.

È un incredibile viaggio nel dolore della malattia fatto con dolcezza, che pare anche un atto di accusa all’assistenza sanitaria per la povera gente. In appena un’ora e mezza (il regista firma anche la sceneggiatura ed è coautore della fotografia, del montaggio e del suono) la camera scruta il volto di un’anziana contadina malata di Alzheimer e che è stata rimandata a casa dopo lunghe cure inefficaci in una residenza assistita.

Immobile nel letto e immobile nel volto, giunge un incredibile messaggio di umanità. È un via vai continuo e vivace di parenti e amici, i quali la osservano, la salutano, commentano incessantemente il suo stato. Il tutto in un alternarsi di piccoli sketch della quotidianità di questa piccola comunità del Fujian, fatto di conversazioni o di caccia notturna nelle paludi alle succulente tartarughe. Wang Bing riesce a riprendere qualsiasi cosa con poesia, nel lavoro delle inquadrature, nella fotografia, che potrebbe essere anche quella di un documentario di poesia.

Umanità e semplicità
Come quando inquadra una donna anziana seduta su una poltrona scassata all’esterno di una veranda mentre sulla strada piove e s’intravedono dissonanze con quella povertà, dissonanze espressione del liberismo sfrenato e dei suoi status symbol ossessivi, come le automobili lussuose parcheggiate sulla strada melmosa. Grande inquadratura non perché dia desiderio di vivere quella vita parca e povera, ma perché fa affiorare l’essere umano nella sua intrinseca bellezza, come facevano i grandi pittori del passato e come nel cinema moderno hanno saputo fare alcuni registi in maniera unica, per esempio Rossellini.

La signora Fang è ferma, la vita continua. Attiva e sempre uguale insieme. Anche quando la ritengono ormai prossima alla fine lo dicono davanti a lei, diretti, con una naturalezza lontana anni luce dai nostri modi occidentali. Poi muore. E soltanto allora ci rendiamo pienamente conto di aver assistito agli ultimi giorni di vita, risalenti al 2016, di questa anziana signora dal volto dolce e quasi inespressivo filmati con grande delicatezza e semplicità malgrado l’impudicizia apparente del letto di malattia e di morte messi in evidenza, in primo piano. Ma quando lei se ne va, non la vediamo più e sentiamo solo i commenti di amici e parenti.

Improvvisamente è fuori campo. E questa improvvisa brutalità dopo la dolcezza lenta e statica a cui ci eravamo abituati già annuncia quello che accade poco dopo quando la camera si avvina delicatamente ai volti di chi rimane, volti che pronunciano preghiere sussurrate, volti in lacrime, volti immersi nel silenzio dopo tanto parlare, dopo tante parole proferite incessantemente. L’umano appare in tutta la sua forza nell’assenza. Un film esemplare nel riportarci alla durezza della condizione umana con il massimo dell’umanità. Facendoci oltretutto capire come quest’ultima sia inseparabile dalla semplicità.

Una scena del film Verâo danado, del giovane portoghese Pedro Cabeleira.

Verâo danado (Cineasti del presente) del giovane portoghese Pedro Cabeleira è una delle sorprese del festival, forse la sua sorpresa. Il film, bell’esordio al lungometraggio, è un ritratto rapsodico di una comunità di giovani portoghesi di oggi, filmato con camera mobile, in stile quasi documentaristico. Il quotidiano diurno di questi giovani è ripreso con luce naturalistica, nella sua semplicità. Ma le lunghe sequenze delle feste, l’uso magistrale della musica, splendida, ne fa un poema visivo unico e mai visto prima, di follia e desideri potenziali, di potenzialità inespresse, di ambivalenze che potrebbero diventare positive polivalenze se ci fosse più coraggio.

Tutto sul crinale
Il ritratto generazionale appare in tutta la sua forza, nelle solitudini e nell’incompiutezza che si affaccia dopo le feste, liberatorie di un’aspirazione “altra”, di un anelito. Film spirituale e film rock, film drogato e liberato, anche sessualmente, trova forse il suo apice espressivo nell’improvvisa dissonanza musicale quando la festa bruscamente lascia il posto a una musica lisergica anche se ovviamente indoviniamo che la musica moderna, nella realtà, continua.

Lirismo antico contro lirismo moderno. Esperimento mai visto prima, qui ascoltiamo musica che fa da contrappunto, contrasto e insieme complemento ad altra musica, mentre la colonna sonora nel suo insieme è usata con la stessa intenzione nella parte non musicale e diurna, che apre e chiude il film. E ne viene fuori un ritratto originale, potente, toccante di poesia del reale trasfigurato nel potenziale di una generazione forse perduta, forse no. Il regista lascia tutto sul crinale, proprio come lo è oggi il mondo come mai prima dall’ultimo dopoguerra.

Ma ha filmato, creato o ricreato un altro mondo con vera potenza e rivelato volti belli, al tempo stesso quasi antichi, da fenici risorti, giovani che a film concluso si ha voglia di abbracciare, stimolare, confortare. Un film problematico ma umano.

Dei tanti titoli che qui a Locarno hanno raccontato una comunità – spesso giovanile – e le donne, i film di Wang Bing e di Pedro Cabeleira ci sembrano fissare al meglio questo due linee di fondo.

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