Gorillaz, Saturnz barz
Dopo sei anni di silenzio, il 23 marzo i Gorillaz sono tornati. E sono in grande forma. La band a cartoni animati di Damon Albarn ha pubblicato contemporaneamente quattro nuovi singoli e un video, che anticipano il nuovo disco Humanz, atteso per il 28 aprile. Sono pezzi molto diversi l’uno dall’altro. Saturnz barz, forse il migliore del lotto, è un brano molto influenzato dalla trap, un sottogenere dell’hip hop reso famoso dal rapper Gucci Mane, e dal reggae giamaicano. Alla voce c’è il giamaicano Popcaan, al quale Albarn (o per meglio dire 2D, il suo alter ego animato) lascia quasi tutta la scena, limitandosi a cantare un paio di strofe. Il risultato è di alto livello: Saturn barz ha il ritmo della dancehall e l’orecchiabilità del pop. Ma le buone notizie non sono finite, ascoltando gli altri inediti. In Ascension, un pezzo di denuncia, c’è il rapper californiano Vince Staples. In We’ve got the power, che vira più verso il rock, ci sono Jehnny Beth delle Savages e l’ex nemico giurato Noel Gallagher, in una specie di reunione post Britpop. Andromeda, con i suoi suoni vagamente disco, rimanda agli anni di Demon days. La musica dei Gorillaz stupisce ancora una volta per ricchezza e originalità, oltre che per l’abilità di 2D/Damon Albarn di tenere insieme tutto il carrozzone in modo così brillante. Ah, quasi dimenticavo: tanto per cambiare, il video è notevole.
Kendrick Lamar, The heart part 4
Il 23 marzo è stato un giorno ricco di sorprese. Poche ore dopo la scorpacciata di Gorillaz, quando in Italia era notte, Kendrick Lamar, autodefinitosi “il più grande rapper vivente”, ha pubblicato un nuovo singolo. Boria a parte, Kendrick non ha tutti i torti. Al momento non c’è nessuno più bravo di lui in circolazione. To pimp a butterfly è stato uno dei dischi più importanti degli ultimi anni. La vera musica di protesta, oggi, non è certo il folk o il rock, ma l’hip hop, anche per merito di Lamar. Il nuovo brano The heart part 4 non sarà (probabilmente) il primo singolo del quarto disco, ma è una specie di teaser, come si dice in gergo. Non a caso, sul finire del brano, il rapper dice: “Y’all got till April the 7th to get ya’ll shit together”. I fan l’hanno interpretato come l’annuncio della data d’uscita del disco. Chissà, comunque aprile sarà un mese da tenere d’occhio.
The Creation, How does it feel to feel
I Creation sono esistiti per poco (dal 1966 al 1968, anche se si sono riformati negli anni ottanta) e hanno pubblicato solo un singolo di successo, Painter man. Ma in seguito sono diventati un gruppo imprescindibile per gli appassionati di rock britannico. Diverse band indipendenti degli anni ottanta (per esempio i Television Personalities) li hanno omaggiati e Alan McGee, il discografico che ha scoperto i Jesus and Mary Chain e gli Oasis, ha preso in prestito il loro nome per la sua casa discografica. Il suono dei Creation ricorda quello di altre grandi band degli anni sessanta, dagli Who ai Kinks. La compilation Action painting, da poco ristampata dalla casa discografica statunitense Numero Group, raccoglie tutti i 42 brani registrati in studio dal gruppo. Un ottimo suggerimento per chi vuole conoscerli un po’.
Cesare Basile, Cincu pammi
Dopo aver registrato ottimi album di cantautorato italiano, da qualche anno Cesare Basile si dedica alla sua lingua madre: il siciliano. Una scelta coraggiosa, che nel 2015 gli è valsa una Targa Tenco per il miglior disco dialettale con Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più. Anche nel nuovo disco del musicista catanese, intitolato U fujutu su nesci chi fa?, ci sono canzoni notevoli, come questa Cincu pammi (in italiano significa “cinque palmi”), dedicata all’antica lotta con i bastoni, una disciplina che lo stesso Basile pratica da anni insieme al maestro Alfio Di Bella. È musica dal retrogusto antico, ancestrale. E per questo sempre attuale.
Talaboman, The ghosts hood
Di solito i dischi collaborativi fanno fatica a rispettare le attese. Night Land, registrato dallo spagnolo John Talabot e dallo svedese Axel Boman, è una felice eccezione. Soprattutto perché non sembra un album fatto da due persone, ma da una sola. Lo stile globale e inquieto di Talabot, che pesca tanto dal funk quanto dalla musica africana, si è fuso in modo impeccabile con i suoni più compassati e nordeuropei di Boman. E così sono nati intrecci ritmici tanto ballabili quanto riflessivi, come quello di The ghosts hood.
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