19 novembre 2020 15:01

Portano il colera. Vivono in quartieri affollati in cui aleggiano odori nauseabondi. Passano le serate ascoltando le piacevoli note dei loro strumenti, in cortili sudici e con l’aria che odora di marcio. Le loro case sono piccole e malridotte. Hanno non più di due o tre stanze, ma in ognuna vivono decine di persone. Hanno l’aspetto affamato. Arrivano a ondate, irritando la gente e attirando grande attenzione.

Sono troppi, le autorità dovrebbero fare qualcosa. Scappano da malgoverno, guerre sanguinose, povertà. Hanno strane superstizioni. Sfruttano i loro bambini, li mandano per strada a mendicare e li costringono a consegnare ogni sera i soldi, altrimenti li picchiano e non gli danno da mangiare.

Quando si dedicano al lavoro agricolo sono molto bravi. Sono asciutti e muscolosi, capaci di sostenere un prolungato sforzo fisico. Hanno una certa destrezza e un senso artistico sviluppato. Le loro donne sono apprezzate per le virtù domestiche. I reati di cui sono accusati sono solitamente crimini violenti. La loro presenza compromette i nostri standard di vita e mina la qualità della nostra nazione. Grazie al loro senso della famiglia sono molto generosi con i parenti rimasti a casa.

Più che ospiti si sentono abitanti di un ghetto. Condividono ben poco con un paese che deve sembrare loro il paradiso del benessere. Si riuniscono soprattutto nelle stazioni. Sono numerose le organizzazioni che si occupano di loro, la Caritas gli fa da mamma. Hanno una passione per i coltelli. I loro reati tipici sono traffico di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, contraffazione. Non hanno possibilità di crescita professionale. I loro figli vanno male a scuola.

Sono gli italiani emigrati all’estero descritti dalla stampa di tutto il mondo tra l’ottocento e i giorni nostri. Quegli articoli sono raccolti nel volume In cerca di fortuna pubblicato da Internazionale e appena uscito in edicola e in libreria.

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