11 marzo 2015 10:11

Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, la Praesens film di Zurigo, che produceva film e documentari (e un film a forte impronta documentaria come L’ultima speranza di Leopold Lindtberg, sugli italiani che passavano il confine con la Svizzera per sfuggire la guerra e l’occupazione tedesca) affidò a Fred Zinnemann, che aveva fatto documentari con Billy Wilder al tempo della Germania di Weimar ed era finito, fuggito dalla Germania perché ebreo, a farne in Messico (Redes) e a farsi assorbire da Hollywood (dove avrebbe girato film importanti come Da qui all’eternità), la realizzazione di un film sui bambini che la guerra aveva lasciato senza famiglia a vagare per un’Europa di macerie, molti dei quali sopravvissuti ai lager.

Gli americani comprarono il progetto integrandolo in un film a soggetto più tradizionale – ma restano sconvolgenti le immagini più vere del film, sui luoghi dove la United Nations relief and rehabilitation administration (Unrra) accoglieva centinaia di questi bambini senza più casa e genitori e nessuno. Il film si chiamò in Italia Odissea tragica (The search, 1948).

Il trailer del film The search

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Dopo il trionfo imprevisto ed eccessivo del “film muto” The artist, Michel Hazanavicius ha rifatto quel film spostandone la storia al 1999, nella seconda guerra della Russia alla Cecenia, schierandosi decisamente dalla parte cecena. Se ne è parlato non bene, a Cannes e dopo. The search non ha avuto il successo di The artist, ma non è affatto un film spregevole, dimostra solo che Hazanavicius non è il grande regista che molti hanno voluto credere.

L’impresa risulta tutto sommato onesta, e per buona parte riuscita. Anche qui c’è qualcosa di troppo furbo e “hollywoodiano” nel racconto del rapporto tra il bambino perduto e una giovane funzionaria internazionale (una Bérénice Bejo che sa di fotomodella e stona con tutto il resto); nel film antico il ruolo della salvatrice era affidato a un maschio, un soldatino qualsiasi delle truppe statunitensi, Montgomery Clift alla prima apparizione cinematografica, molto più credibile e convinto, e invece di una sorella all’affannosa ricerca del bambino perduto c’era una madre, ma l’ambientazione – luoghi volti situazioni – è reale e impressionante, e l’aggiunta della storia parallela di un soldatino russo che diventa, in un sistema militare di oscena brutalità, un killer disumano secondo gli ideali dei suoi comandanti, è forte e convincente. Meritava un film a sé, lontano dalla morbosità spettacolare di certa letteratura.

Se il film non è piaciuto come il regista sperava – per metà sincero e per metà no – dipende da questa combinazione di vero e di falso, difficile da maneggiare in un contesto in cui la televisione ci abbrutisce col vero e il cinema col falso. Entrambe le strade sono intasate da miliardi di immagini superflue e inquinate dall’opportunismo e dalla malafede di chi ce le accosta.

Il cinema che piace è – per il vasto pubblico che esige emozioni di superficie – quello delle guerre alla Spielberg, e – per pubblici più “morali” e dal gusto meno corrotto – quello di chi documenta, quello di registi esigenti ed eticamente rigorosi. Se lo fanno con sincerità e partecipazione o con freddezza e distanza è probabilmente secondario sia ai fini della documentazione che a quelli dell’espressione.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it