Su Adam McKay, frenetico attore (comico), produttore e regista cinematografico e televisivo nato nel 1968, non avremmo scommesso un euro, ma “mai dire mai” sostengono i saggi, e infatti abbiamo perso la scommessa, così come l’ha persa, almeno provvisoriamente, e facendola scontare a noi tutti, l’economia americana nel 2007. In verità, la traduzione del titolo avrebbe dovuto essere, dicono gli esperti in banche, “il grande scoperto”.

The big short

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Il suo film La grande scommessa, sceneggiato dallo stesso McKay insieme a Charles Randolph, parte da un libro di Michael Lewis che narra come tre gruppi di avventurieri finanziari di seconda scelta prevedono la crisi e i modi in cui esploderà (e fanno anche qualcosa per accelerarla), per ricavarne il loro vantaggio, cioè profitto. In una girandola freneticamente razionale di scoperte e intrecci, di esplorazioni e contatti, di giochi (in borsa) e fiaschi provvisori, l’azione parallela – ma a volte incrociata – dei bizzarri protagonisti, per la maggior parte di sesso maschile e tutti ipernevrotici, divoratori di pillole, avidi e megalomani e, diciamolo, postumani più della media dei loro contemporanei, penetra nei gangli di Wall street e accelera il decorso della sua malattia. Delle sue truffe.

McKay e Randolph, affiancati da un bel gruppo di attori che sembrano la parodia di se stessi, cioè della loro immagine abituale, tra i quali l’unico contenuto e non isterico è stranamente Brad Pitt, peraltro uno dei produttori del film, e assistiti da un montatore superlativo, hanno scelto di dare alla loro esplorazione del mondo finanziario un taglio velocissimo, che spesso stordisce più che ammaestrare. Ci sono esempi recenti di questa velocità in film di Scorsese e altri, ma lì lo scopo era espressivo e non didascalico, non mirava a scandire la sequela inarrestabile di mosse e contromosse dei protagonisti, il cui privato è accennato per pochi di loro, ed è invero più deprimente che esaltante. Altri il privato non ce l’hanno, hanno solo la corsa ai soldi, le astuzie per acciuffarli, i computer e gli appuntamenti per manovrarli.

Alle persone normali questo può sembrare un mondo di matti, ma non lo è. È semplicemente il mondo di chi manovra il denaro altrui. Ci si perde spesso nei meandri delle mosse e contromosse e dei “giochi” di borsa, e lo spettatore si deve fidare di quel che vede e sente senza capirci poi molto, senza capire cosa i personaggi stanno facendo, come procede la finanza e dunque l’economia e che cos’è a guidare la storia, ratificando la diffidenza delle persone normali per quelli che di finanza capiscono e che, soprattutto, vi intervengono e ne vivono.

Il peso dei soldi

È da qualche tempo (dai retorici film su Wall street e dal Petroliere di Anderson) che il cinema statunitense si è accorto del peso dell’economia e delle mutazioni portate dalla finanza, anche se raccontare tutto questo con una drammaturgia tradizionale non può bastare, ed ecco che si cercano strade nuove, adeguate. Il modello antico è di stampo brechtiano, ma in veste americana e postmarxista, certamente non epico, anzi solo grottesco (e non fu d’altronde Brecht a porsi il dilemma se fosse più criminale fondare una banca o svaligiarla?) e senza un punto di vista forte com’era quello di allora, fiducioso nella spiegazione che aiutasse lo spettatore a “prendere coscienza” e dunque a reagire.

Di recente anche in Italia c’è stato chi ha cominciato ad affrontare il mondo del denaro in letteratura e soprattutto in teatro – l’esemplare dramma in molti atti sul fallimento della banca Lehman scritto da Massini per la regia di Ronconi – e certamente è questo il tema centrale del nostro tempo.

Constatando come funziona il mondo e come pochi si prendano gioco di milioni e milioni di persone (otto milioni, dice la didascalia finale del film, hanno perso il lavoro nella crisi e molti altri hanno perso la casa, e parla solo degli Stati Uniti) il rischio che si corre è di far provare simpatia per gli svaligiatori di banche – ma questo è avvenuto assai spesso – e per i terroristi! Tanto più che, come dice un’opportuna didascalia finale, tutto rapidamente è tornato come prima, negli Stati Uniti come altrove, e quella finanza continua imperterrita ad agire con la stessa logica, convinta com’è che l’altare della storia non sia altro che l’altare del denaro.

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