Addentriamoci dunque buon ultimi lungo il Missouri, tra i monti del North Dakota, in mezzo alle nevi e ai pericoli di una natura ancora selvaggia e a quelli della Storia (con la maiuscola anche se parla di personaggi “minori” o infimi), nel lontano 1823 dei primi avventurieri e pionieri che presero la strada del west a caccia di bisonti e del nord a caccia di pelli, dovendo scontrarsi con varie tribù di indigeni e con i soldati francesi che contrastavano agli “americani” l’ambizione alla colonizzazione di territori solo in parte esplorati.
Quante volte non abbiano letto queste storie, da Fenimore Cooper in avanti, e goduto al cinema di queste avventure, epicamente reinventate e mitizzate da Ford e De Mille, da Hawks e Mann? Negli anni settanta, più o meno un secolo e mezzo dopo quelle imprese, il cinema hollywoodiano ce ne regalò molte revisioni e demistificazioni importanti, per esempio con il film di Richard Sarafian, Uomo bianco, va’ col tuo Dio (interprete Richard Harris, un robusto attore britannico che fu protagonista di un’altra rivisitazione epica e brutale del mondo western, Un uomo chiamato cavallo di Elliot Silverstein, tutto dalla parte degli indiani).
Il film di Sarafian era ispirato alla vera vita di un cacciatore di pelli, tale Hugh Glass, sopravvissuto a molti disastri, un “redivivo” la cui vicenda sollecitò la fantasia popolare, e a cui è tornato il regista Alejandro González Iñárritu con l’aiuto di uno sceneggiatore specializzato in horror invece del suo solito compare Guillermo Arriaga, figlio come lui di una borghesia messicana ricca o straricca. Entrambi e con altri all’assalto di una Hollywood sfibrata dalla corsa al successo e dalla manipolazione del nuovo, e soprattutto dai ricatti e dai diktat delle grandi agenzie finanziarie, non solo nazionali.
Iñárritu sa come far scattare nello spettatore qualcosa di ancestrale e profondo
Né Iñárritu né Arriaga (né lo Smith nuovo sceneggiatore) sembrano persone simpatiche, ma è però impossibile negare che siano, oltre che molto furbe, anche di talento. E l’ossessività della regia di Revenant è una perfetta dimostrazione di questi, non contraddittori, caratteri. La macchina da presa non sta mai ferma, e nonostante la ripetitività delle situazioni e degli ambienti e tipi umani primari – un buono vedovo con figlio meticcio, un capo molto responsabile e un cattivo diabolico, tra acque e nevi, tra rocce e foreste che sono loro nemiche quanto gli orsi e le notti – Iñárritu costruisce la suspense con molta sapienza, tra un episodio e l’altro tutti peraltro affini, e sa come far scattare nello spettatore qualcosa di ancestrale e profondo, memore sia di Carl Gustav Jung sia del Jack London più duro.
La struggle for life darwiniana, gli incubi primordiali, l’uomo che è e rimane per tanta parte animale (e dunque, con l’orso, Glass lotta alla pari). Per di più, il tema del sopravvissuto (o dei sopravvissuti) è da tempo in auge nell’industria culturale, che riesce a venderci anche le peggio tragedie, illudendoci che noi singoli lettori o spettatori, noi sì, sopravviveremo. E in lontananza, ecco Robinson e Venerdì, ecco Dersu Uzala e la lotta con la natura, ecco anche, però, sulla natura, il National Geographic con le sue immagini di albe e tramonti incontaminati.
È una tagliola in cui è preso anche chi è passato dalle letture e dalle visioni a cui gli autori del film hanno fatto ricorso, servendosi principalmente dei sogni e degli incubi di Glass. Rispetto ai “classici” c’è però in questa sapienza qualcosa che respinge. Ed è la volontà di piacere alle vecchie e nuove credenze degli americani, al revival tormentoso della lotta per la sopravvivenza di sapore ottocentesco, delle ideologie del verismo e del naturalismo, della crudeltà del confronto con gli elementi e con il mondo (vegetale e animale), e del confronto sociale, dell’homo homini lupus però con l’aggiunta del richiamo a un dio biblico (e antipatico), che appartiene per l’appunto alla tradizione protestante dei bianchi statunitensi più che a quella cattolica dei messicani.
Il nemico è un doppio insinuante e raziocinante, un subdolo demone, l’amico è la donna amata e perduta, una madonna che sembra vegliare dall’oltre, dolce e bensì impotente. La campana che ancora svetta sulle macerie di una chiesa non manda suono, nei sogni del protagonista; ma se dio tace, sua è la vendetta, dice Glass ipocritamente lasciando il suo nemico ai pellirosse che hanno altrettante ragioni delle sue per desiderarne la morte.
Tutto studiato a tavolino, tutto calcolato con acume e sapienza, ma col sospetto che gli autori siano più vicini alla malizia del demone che al tormento del trapper. Che è incarnato con convinzione dall’ottimo DiCaprio anche se, tra ghigni e smorfie e dure prove fisiche, non è la sua interpretazione più sottile.
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