26 settembre 2017 15:09

La 01 Distribution e Rai Cinema hanno messo sul mercato dei dvd un bel film di Alberto Lattuada del 1954, Scuola elementare, che si presta a molte considerazioni e che, anzitutto, può rivelare agli spettatori delle ultime generazioni un mondo che non conoscono, quello dell’Italia prima del miracolo economico.

Le impressioni che se ne ricavano sono tanto più forti in quanto l’ambientazione del film è milanese e non la solita del cinema italiano del dopoguerra, ossessivamente romana. Le impressioni saranno infine più forti per chi frequenta per un motivo o per l’altro – da scolaro, da maestro o maestra o preside o bidello, da genitore – la scuola elementare di oggi.

Nel film, nell’Italia del 1954 il maestro elementare Dante Trilli, spostato da un paese del Lazio alla “capitale morale” ed economica della nazione, e il suo compaesano Pilade che è lì da tempo a fare il bidello, quando vanno dal tabaccaio non comprano un pacchetto di sigarette, ma cinque sigarette – perché le sigarette le si vendeva sciolte, visto che un pacchetto tutto in un botto costava troppo per le tasche di allora. O la domenica d’estate vanno all’Idroscalo, “il mare di Milano”, il massimo di vacanza che il proletariato milanese poteva permettersi.

Un miracolo sognato ma in cammino
Tutto è fortemente datato nel film di Alberto Lattuada, un regista tra i nostri migliori, che andava oltre il neorealismo per la sua origine cinefila anni trenta, per la sua grande cultura umanistica e borghese tranquillamente rivendicata, per la sua “milanesità” (a Milano era nato e cresciuto, figlio di un musicista famoso), per la sua laicità (rispetto ai due grandi schieramenti politici del tempo, i rossi e i bianchi), e infine per la fortissima attrazione e attenzione provata per i personaggi femminili, tra i più memorabili di quegli anni (quello più famoso, l’Anna di Silvana Mangano, per metà del film peccatrice e per metà purissima monaca).

In Scuola elementare non hanno molto spicco, anche perché la supplente impersonata da Lise Bourdin (era tempo di coproduzioni con la Francia, una tradizione finita purtroppo da molti decenni) che lasciava la scuola per fare la miss aveva una sua originalità, ma non l’aveva l’attrice.

Lo sfondo del film sa dunque di realtà, e l’ambientazione e la vicenda servono a ricordare un’Italia antica, una divisione in classi sociali ancora un po’ ottocentesca, dove però Lattuada inserisce efficacemente gli annunci di un miracolo economico sognato e bensì in cammino, per esempio nella “gita scolastica” che non va molto lontano, ma in periferia a visitare una grande fabbrica di automobili: gli scolari e gli insegnanti di una scuola ancora deamicisiana vi si confrontano con una rombante modernità.

Lo sfondo cittadino del 1954 potrebbe essere utile a chi insegna storia e sociologia oggi per far “vedere” ai loro allievi “come eravamo”, o meglio, come erano i loro genitori, o i loro nonni, in che mondo vivevano. Penso soprattutto ai milanesi di oggi: le aspirazioni e le ossessioni di ieri aiutano a capire quelle di oggi, dopo una mutazione perfino più radicale di quella del boom. I “prima” sono molto efficaci per la comprensione dei “dopo”, compreso il nostro oggi.

I bravi comici sono bravi sempre, anche in ruoli drammatici, mentre non è quasi mai vero il contrario

Al centro della vicenda ci sono, lo si è detto, un maestro e un bidello. A impersonarli Lattuada chiamò due attori che venivano dall’avanspettacolo e dalla rivista e lavoravano in coppia e che erano entrambi romani, Mario Riva (Pilade) e Riccardo Billi (il maestro Trilli). Il vero comico era in realtà Billi (famose erano le sue imitazioni di Anna Magnani e di Carmen Miranda) mentre Riva era la spalla. Molti attori comici furono mirabilmente usati in quegli anni in film molto seri, da Renato Rascel (nel Cappotto di Lattuada, tratto da Gogol e ambientato tra le nebbie pavesi) a Nino Taranto (Anni facili di Zampa e Brancati) a Walter Chiari (in Bellissima di Visconti), e ovviamente a Totò e ad Aldo Fabrizi (il secondo fu protagonista per Castellani di Mio figlio professore nel ruolo di un bidello, ma la scuola era un liceo, e per Lattuada di Il delitto di Giovanni Episcopo, da D’Annunzio, perfetta evocazione della Roma umbertina). I bravi comici sono bravi sempre – è cosa nota – anche in ruoli drammatici, mentre non è quasi mai vero il contrario.

Tra De Amicis e le avanguardie pedagogiche
Nel film, Riva-Pilade pratica l’arte di arrangiarsi, lo stipendio di bidello non è alto, ed egli risolve tanti piccoli problemi per maestri e allievi ma anche vende sottobanco lamette da barba ai maestri e caramelle agli scolari; Billi-Trilli il maestro idealista, appunto deamicisiano, crede in una gestione della classe tra autoritaria e democratica, e considera gli allievi come fossero adulti: “Non ci sono i bambini”, ogni bambino è un essere unico. “Io vi tratto da uomini”, dice agli allievi. Nella sua classe ci sono il figlio del commendatore, il figlio dell’operaio, il figlio dell’impiegato e anche il bambino di cui, nel registro di classe, alla casella paternità sta scritto N. N. – per chi non lo sapesse, nomen nescio, o non noto, il modo atroce di segnalare su ogni documento ufficiale (fino al 1975!) i figli di padre ignoto.

La classe è peraltro numerosissima, gli spazi sono tradizionali (i banchi a due posti), il metodo di insegnamento è ancora quello della riforma Gentile. La scuola attiva è di là da venire, anche se – Lattuada forse non lo sapeva, ma è più probabile che preferisse parlare non delle minoranze e delle avanguardie pedagogiche, ma della assoluta normalità – c’erano già a Firenze Scuola Città e a Rimini il Ceis, scuole d’avanguardia, parificate, non classiste, e in giro per l’Italia, fondato a Fano dal maestro Giuseppe Tamagnini, il Movimento di cooperazione educativa, sul modello di quello francese ideato dal grande educatore Céléstin Freinet nel 1937, in pieno Fronte popolare, e, sua derivazione, i Cemea, Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva.

Di tutto questo terranno ampiamente conto due grandi registi, Vittorio De Seta e Luigi Comencini, nei loro viaggi televisivi nella scuola italiana dei primi anni sessanta, una scuola in forte cambiamento come la società di cui era espressione.

I paragoni necessari
Nel film di Lattuada, Riva trascina Billi in un’avventura sballata, per far soldi, destinata a fallire, ma il maestro dimostra un certo talento da pubblicitario e il commendatore padre di un suo allievo (interpretato da Alberto Rabagliati, che era stato un celebre cantante swing degli anni trenta-quaranta) lo assume nella sua ditta, ma alla fine Billi non resiste e torna a fare il maestro, commosso da una celebrazione cui assiste – vera e girata dal vero – di premiazione di maestre e maestri che hanno dedicato la loro vita alla scuola. Chi ha avuto la vocazione di maestro, resta in qualche modo sempre maestro, sembra dire il film, che rivendica ai maestri un posto primario nella vita della nazione.

Né si ride né si piange, vedendo Scuola elementare, ma si pensano tante cose, e naturalmente si è sollecitati ai paragoni con altri film. La scuola più raccontata in tempi recenti è quella degli adolescenti – il film più bello è a mia memoria lo sloveno Class enemy, quello di maggior successo L’attimo fuggente, statunitense.

Di film sulle elementari quello che mi ha sempre commosso di più, ma non lo si è mai visto in Italia e bisogna cercarlo tra i dvd francesi, è L’école buissonnière, qualcosa come “la scuola nei campi”, diretto da Jean-Paul Le Chanois nel 1949, che evoca la prima pionieristica scuola del maestro Freinet (non va confuso con un film molto recente che ne ha rubato il titolo) e ovviamente Il diario di un maestro del citato De Seta, girato per la televisione nel 1972.

Molti sono i film (in genere commediole) sui licei di oggi, e non sempre quelli più ambiziosi sono i meno superficiali. Avendo, per motivi biografici, una forte predilezione per quelli sulle elementari, e considerando le elementari la parte più sana, ancora oggi, nel disastro del nostro sistema scolastico e della sedicente “buona scuola”, ricordo il solo film, di produzione e diffusione marginale, che ha saputo raccontare adeguatamente il dramma e la bellezza del lavoro di maestro nelle condizioni attuali, e in una scuola di quartiere decisamente “interetnica”, la Pisacane di Roma: Una scuola italiana, di Angelo Loi e Giulio Cederna. Se avessimo una televisione intelligente (ma la tv è la prima e vera e immonda scuola degli italiani), sarebbe bello presentare l’uno dopo l’altro Scuola elementare e Una scuola italiana, con un pubblico di insegnanti e di genitori. E di bidelle e bidelli.v

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