15 dicembre 2020 17:44

Saverio Strati
Il selvaggio di Santa Venere
Rubbettino, 290 pagine, 16 euro

Un editore calabrese ripropone l’opera di uno dei più densi ed esemplari scrittori della seconda metà del novecento, e a partire da Tibi e Tascia, una delle più belle storie d’infanzia e adolescenza nel sottosviluppo, non solo italiane. In attesa di Mani vuote e Noi lazzaroni, ora è il turno di un’ambiziosa costruzione narrativa, una sorta di saga del 1977 che Walter Pedullà – come Strati contadino e figlio di contadini, allievo e pupillo di Debenedetti – paragona a Corporale di Volponi e alla Storia di Morante. Non è poco.

Vi si narrano tre generazioni, padre-figlio-nipote, confrontate alla durezza di un’esistenza grama e sudata, in un ordine locale di stampo mafioso e padronale. E una fuga verso il nord, nella Firenze che Strati sognava come centro di cultura e civiltà, e dove scelse poi di vivere e di morire (nel 2014). Si rileggono con forte emozione queste vicende, da cui imparammo a conoscere, dopo Corrado Alvaro, la cultura e la società di una regione complessa, nella sua vicinanza e differenza dalle limitrofe, dentro un sud precario e duro di cui il romanzo offre una sintesi storica e antropologica. S’impara e si soffre con i tre eroi-antieroi di un passato che non passa mai del tutto, tra le figure con cui devono o vogliono confrontarsi. Con un passato che ha lasciato tracce buone e che ci riguarda ancora da vicino.

Questo articolo è uscito sul numero 1388 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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