02 settembre 2021 13:41

Il cinema italiano sta attraversando un momento inaspettatamente felice, e il festival di Venezia, che si chiude l’11 settembre, ne dà prova con cinque film in concorso e altri fuori. Tra questi ultimi quello che, se non il migliore, rischia di essere il più profondo e necessario fra tutti, Ariaferma di Leonardo Di Costanzo. Ne riparleremo. Si diceva un momento inaspettatamente felice, perché le istituzioni del cinema sono quello che sono – certo non migliori di altre ben più necessarie – e il contesto culturale e antropologico della nazione non è certamente favorevole a movimenti forti di una chiarezza di scelte, di una solidità di ispirazioni e di vocazioni. La letteratura e il teatro, per esempio, se la passano molto peggio, e così altre arti e altre scienze.

E se la letteratura è soffocata da un mercato insipiente (si pubblica per far circolare il denaro, secondo il dettame delle banche, e vendere non importa; ma tutti scrivono e si pubblica tutto, e se lo Strega ha premiato senza dubbio il migliore dei libri in concorso, avete idea di cosa non erano, tutto o quasi, le altre dozzine?), dalle tremende scuole di scrittura e dalla malattia del narcisismo e della chiacchiera elettronica; il teatro è soffocato da un’assenza di visione, dalla paura di scavare nel disastro epocale fino a starci davvero male (e farsi davvero male) e dal poco studio, ma consolato dagli “io penso che” e “io sono io” “io” mai così fragili e incerti, e però convinti della loro originalità necessità autenticità. Vale dunque la pena di seguire cosa offre il nostro cinema, e ricavarne qualche indicazione sullo “stato delle cose” e sulle, finora vaghe e lontanissime, possibilità di cambiarle.

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In attesa di parlare dei film veneziani vanno segnalati due film significativi e importanti. Il primo, già da tempo nelle sale, è opera di uno dei nostri migliori e più affermati registi, insieme a Bertolucci il più giovane della grande stagione pre e post ‘68. Il secondo invece è l’esordio di un valente “seconda generazione”. Rimandiamo alla sua uscita in sala le considerazioni sul Legionario di Gleb Papou, giovane regista italiano di origine bielorussa, già allievo del Centro sperimentale (che evidentemente a qualcosa serve ancora e a molto di più potrebbe evidentemente servire). Premiato per la regia a Locarno, è, quantomeno per il soggetto, il più nuovo e il più “necessario” dei film recenti.

Testimonianze necessarie
Partiamo allora dal “vecchio”. Marco Bellocchio con il documentario Marx può aspettare torna a un tema centrale nella sua opera, cioè quello dei rapporti interfamiliari, ma finalmente libero dalle confuse ipoteche ideologiche del suo guru e analista di ieri. In particolare, Bellocchio torna a riflettere su uno degli eventi centrali nella sua esperienza umana, quello dei suicidio del fratello gemello Camillo, di cui devo dire per chiarezza che anch’io sono stato amico e della cui inattesa e “incomprensibile” scelta di darsi la morte ho anch’io in qualche modo sofferto.

Con un altro Bellocchio, Piergiorgio, e con l’indimenticabile Grazia Cherchi – che, posso testimoniarlo, soffrì della morte di Camillo quasi quanto i suoi familiari – facevamo in quegli anni ( “il ’68”) una rivista di battaglia, Quaderni piacentini e per questo ero spessissimo a Piacenza. Non mi è dunque facile parlare con serena oggettività di un film che mi ha molto scosso e commosso. Tutti hanno detto che si tratta di un gran bel film e io non posso che confermarlo, pur cercando una necessaria distanza critica. Le testimonianze familiari e amicali si dimostrano tutte in qualche modo necessarie nel ritorno alla angosciante domanda centrale: “perché?”, “perché ci si uccide?”, per di più a quell’età e senza apparenti giustificazioni. Tutte necessarie tranne forse quelle dei due guru interpellati, un gesuita assolvi-tutti (visione religiosa) e uno psichiatra molto presente (visione laica) che, a partire dai loro mestieri, dicono cose in verità ovvie.

È comprensibile però la preoccupazione del regista di cercare il loro conforto, di fronte al panico che sorge dal suicidio di una persona molto vicina e molto cara. Su questo, però, ad aiutare di più lo spettatore sono proprio i familiari, alcuni con un massimo di sincerità, come le sorelle, e altri soggiacendo a un po’ di retorica, dovuta anche alla distanza da quel tempo. E il quadro familiare che ne viene fuori è insieme caldo e affettivo ma che, per il dominio di una figura materna assai ingombrante, può ancora giustificare il vecchio “famiglie, vi odio!” del giovane Gide, che valeva allora e vale ancora, soprattutto per tante famiglie borghesi, ma non solo.

Non c’è risposta, infine, alla domanda “perché?”, e c’è sempre qualcosa che va oltre e che forse non può mai avere una risposta davvero convincente. Con un intreccio di libertà e di pudore, Bellocchio, tornato da tempo a essere qualcosa di più di un ottimo regista, come sempre ha voluto essere e come è doveroso essere, ha pensato e ha realizzato un film che va oltre le convenzioni narrative correnti e va anche oltre quelle del documentario, un film nuovamente e davvero necessario, per il nostro bisogno di consolazione e per il nostro bisogno di comprensione, e infine per il nostro bisogno di modelli di comportamento familiari e sociali.

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