06 ottobre 2014 15:37

C’è stata un’epoca, circa 25 anni fa, in cui le accademie militari di tutto il mondo insegnavano una dottrina abbastanza efficace per sconfiggere il terrorismo. Con il tempo l’abbiamo dimenticata, ma forse oggi è il caso di recuperarla perché potrebbe essere particolarmente utile nella lotta contro lo stato terrorista che si materializzato nel nord iracheno e nell’est della Siria.

La dottrina è stata sviluppata negli anni sessanta, settanta e ottanta, quando il terrorismo rappresentava uno dei problemi globali più impellenti. Il più delle volte questa strategia ha funzionato, che si trattasse dei terroristi metropolitani che tormentavano la maggior parte dei paesi dell’America Latina e diversi stati in via di sviluppo, o dei guerriglieri rurali che combattevano i governi in Africa e in Asia.

L’idea di base è semplice: i movimenti terroristici cercano sempre di provocare una reazione sproporzionata, per cui è meglio non cadere nella loro trappola. Di solito i terroristi non hanno il sostegno popolare necessario per rovesciare il nemico, quindi cercano di usare la forza dell’avversario ritorcendogliela contro. La maggior parte dei gruppi terroristici, interni o internazionali, prova a scatenare una risposta stupida e controproducente da parte del governo che vogliono sconfiggere.

La Rote armee fraktion (Raf), per esempio, sperava che i suoi attacchi avrebbero spinto il governo della Germania Ovest ad attuare una repressione massiccia, ovvero a “smascherare la tolleranza repressiva della borghesia liberale”, nelle parole del filosofo tedesco Herbert Marcuse. Secondo i terroristi della Raf, una volta che il governo tedesco avesse rivelato la sua vera natura, milioni di lavoratori si sarebbero ribellati e lo avrebbero rovesciato.

Non è mai stato possibile verificare questa teoria, perché il governo tedesco ha reagito con calma, limitandosi a stanare i terroristi, a ucciderli e ad arrestarli. Ha impiegato la violenza, ma solo in modo legale e mirato. Lo stesso approccio è servito a sconfiggere i terroristi in Italia (le Brigate rosse), in Canada (il Fronte per la liberazione del Quebec), in Giappone (l’Armata rossa giapponese) e negli Stati Uniti (i Weathermen).

In America Latina, al contrario, i “terroristi urbani” sono riusciti a portare a termine la prima fase del piano. I loro attacchi hanno spinto i militari in Brasile, in Argentina e in altri paesi a prendere il potere e instaurare dittature repressive e sanguinarie. Ma neanche in questi casi c’è stata la sollevazione popolare auspicata dai terroristi. Il “popolo” si è limitato a chinare la testa mentre i regimi militari sterminavano i rivoluzionari (insieme a migliaia di innocenti). A volte anche la repressione estrema si rivela efficace nella lotta al terrorismo, ma impone un costo enorme alla popolazione.

Il terrorismo internazionale ha ottenuto risultati migliori, soprattutto perché tradizionalmente il suo obiettivo non è quello di rovesciare i governi che prendono di mira. Questi movimenti si limitano a provocare un governo straniero, nella speranza di suscitare una reazione violenta contro il paese dove vogliono prendere il potere. Si aspettano che gli interventi armati stranieri radicalizzino la popolazione locale, spingendola a sostenere i rivoltosi.

In questo senso l’operazione più efficace è stata quella dell’11 settembre 2001, un attacco a basso costo che ha spinto gli Stati Uniti a invadere due interi paesi nella regione in cui Al Qaeda sperava di sostituire i governi locali con regimi islamisti. La popolazione si è effettivamente radicalizzata (soprattutto nelle aree sunnite dell’Iraq), e tredici anni dopo un “califfato islamico” ha preso il controllo della zona nordoccidentale del paese.

Osama bin Laden avrebbe condannato l’estrema crudeltà dimostrata dallo Stato islamico, ma esso rappresenta la realizzazione della sua stessa strategia adottata dopo il ritiro dell’Unione Sovietica dall’Afghanistan, un quarto di secolo fa. Lo sceicco non avrebbe mai potuto immaginare che il più grande successo della sua strategia sarebbe stato realizzato in Iraq, un paese dove non aveva alleati né seguaci prima dell’invasione statunitense, ma in ogni caso è probabile che ne avrebbe rivendicato il merito.

Ora che il sogno di Bin Laden è diventato realtà, dobbiamo trovare il modo per risolvere il problema (quando dico “dobbiamo” intendo tutti i paesi arabi, la maggior parte degli altri paesi musulmani e tutti i membri della Nato, con l’appoggio della Russia e della Cina). Il comportamento dello Stato islamico è abominevole, ma questo non significa che la soluzione migliore sia bombardare i terroristi dall’alto.

La regola numero uno della vecchia dottrina antiterrorismo era non reagire in maniera sproporzionata, ed è valida ancora oggi. Bisogna ridurre i bombardamenti al minimo indispensabile e colpire solo obiettivi militari. La cosa migliore sarebbe bombardare esclusivamente le aree in cui i jihadisti sono all’offensiva.

Non bisogna farsi spingere a reazioni sempre più violente dalle decapitazioni di ostaggi innocenti e dalle altre atrocità che lo Stato islamico compie per attirare un certo tipo di reclute. La cosa migliore è evitare un intervento di terra (per il quale in ogni caso mancano le truppe) e aspettare che gli eventi facciano il loro corso all’interno dello “Stato islamico”.

Regimi così violenti e radicali raramente sopravvivono a lungo. La rivoluzione divorerà i suoi figli come già accaduto in passato, e lo farà più rapidamente se i terroristi non potranno sfruttare un intervento militare straniero per mantenere uniti.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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