26 gennaio 2016 18:25

L’esito delle primarie presidenziali statunitensi avrebbe dovuto mettere una di fronte all’altro Hillary Clinton, la moglie di un ex presidente, e Jeb Bush, figlio e fratello di altri due ex presidenti: entrambi candidati di valore ma alquanto noiosi, ed entrambi decisamente espressione del cosiddetto establishment. A meno di una settimana dalle prime primarie, il caucus dell’Iowa, Bush non ha un briciolo di speranza e anche Clinton sembra in difficoltà.

Al posto di Bush, il favorito repubblicano è diventato Donald Trump, immobiliarista, stella dei reality tv e demagogo miliardario, che il 23 gennaio ha dichiarato, durante un comizio della sua campagna, “Potrei mettermi in mezzo alla Quinta avenue e sparare a qualcuno e non perderei voti”. La sua arroganza non è fuori posto: con grande disperazione delle gerarchie repubblicane, è quasi certo di essersi garantito la candidatura presidenziale del partito.

Tre mesi fa, i democratici pensavano che una simile prospettiva avrebbe garantito l’elezione di Hillary Clinton, visto che la maggioranza degli statunitensi si sarebbe rifiutata di votare un simile pagliaccio. Era probabilmente una supposizione corretta, ma irrilevante se Clinton non dovesse ottenere la candidatura democratica. Il suo rivale “socialista” Bernie Sanders è ormai pericolosamente vicino a Clinton in Iowa e chiaramente in vantaggio nelle successive primarie, che si terranno in New Hampshire.

Sia Trump sia Sanders sono troppo estremisti per almeno un terzo degli elettori americani

Sanders inoltre sta riuscendo a raccogliere, grazie a delle piccole donazioni volontarie, la stessa quantità di denaro che Clinton ha ottenuto dai suoi ricchi amici e donatori del mondo degli affari. Sanders è ormai in grado di rimanere in corsa fino alla fine, e l’idea che possa crollare quando gli stati più popolosi voteranno nelle ultime primarie si fonda sul discutibile assunto che gli americani non voteranno mai per un sistema sanitario universale e statale, per rette universitarie gratuite e un sistema fiscale che penalizzi i ricchi.

Sanders non è davvero un socialista. Cinquant’anni fa sarebbe stato una figura come tante nell’ala sinistra del Partito democratico, ma in ogni caso la parola “socialista” non è più una bestemmia negli Stati Uniti. Quando, nel giugno scorso, il sondaggista Frank Luntz ha chiesto ad alcuni americani se sarebbero “disposti a votare per un socialista”, ha risposto di sì circa il 60 per cento dei democratici intervistati e, incredibilmente, il 29 per cento dei repubblicani.

Una strada inconsueta

Quest’anno entrambi i grandi partiti americani assistono a un ammutinamento da parte dei loro sostenitori tradizionali. Una sfida presidenziale tra Donald Trump e Bernie Sanders (Tea party contro Occupy Wall street) è un’ipotesi assolutamente plausibile. Sia Trump sia Sanders sono troppo estremisti per almeno un terzo degli elettori americani e questo determina un vuoto al centro dello spettro politico degli Stati Uniti.

È qui che interviene Michael Bloomberg, un altro miliardario, che ha mosso i primi passi come democratico, è diventato repubblicano per farsi eleggere sindaco di New York nel 2001 e oggi si definisce un indipendente. Se la vittoria alle primarie democratiche di Hillary Clinton dovesse apparire ancora l’ipotesi più probabile, non si candiderà. Ma è probabile che lo faccia se Sanders dovesse apparire in vantaggio.

In una corsa a tre tra lui, Trump e Sanders, Bloomberg sarebbe il candidato “moderato” e potrebbe perfino vincere. Le probabilità che tutto ciò accada sono ancora, e di molto, inferiori al 50 per cento. Ma il semplice fatto che una simile prospettiva esista mostra a che punto la politica americana abbia preso una strada inconsueta. Perché?

L’ascesa di Trump è dovuta perlopiù al gerrymandering, un metodo per ridisegnare i confini dei collegi elettorali maggioritari in modo da favorire i candidati di un partito. Questa manipolazione dei collegi elettorali – praticata da entrambi i partiti – ha fatto sì che il 90 per cento dei seggi nella camera dei rappresentanti sia diventato appannaggio di uno o dell’altro partito: ottieni la candidatura, e il seggio è garantito. Per questo gli aspiranti candidati repubblicani devono piacere ai principali sostenitori del partito, cioè ai bianchi operai o impiegati senza una laurea, e non a tutti gli elettori.

Molti di questi fedeli sostenitori del partito repubblicano sono molto, ma davvero molto, arrabbiati. I loro redditi sono stagnanti o in calo e, mentre la demografia trasforma gradualmente gli Stati Uniti in un paese dove le minoranze sono la maggioranza, si sentono marginalizzati e dimenticati. Vogliono che anche il loro candidato sia arrabbiato. Donald Trump, intuitivamente, lo capisce e li compiace.

Rabbia e disperazione

Paradossalmente anche Sanders piace ad alcune di queste persone, perché rappresenta una rottura evidente con le pratiche consolidate. Prove aneddotiche suggeriscono che, dopo Trump, Sanders sia la seconda scelta per molti. Ma buona parte del sostegno nei confronti di Sanders viene da persone che, più che arrabbiate, sono disperate.

Nel nuovo documentario Dream on, il comico John Fugelsang riassume che cosa abbia spinto queste persone molto più a sinistra di quanto avrebbero mai pensato. Secondo lui, “gli Stati Uniti sono diventati un reality show. Cibo, medicine, affitto: scegline due”. Il reddito medio di una famiglia statunitense, espresso in dollari costanti, è più basso di quattromila dollari all’anno rispetto a quello del 2000, e il “sogno americano” sta morendo, ammesso che non sia già morto.

Si tratta quindi di una corsa dove tutti potrebbero vincere, a meno che Hillary Clinton non ottenga la candidatura democratica. In tal caso avrebbe dalla sua i favori del pronostico. Il 24 gennaio ha perfino promesso di “risparmiare” a Michael Bloomberg lo sforzo di candidarsi visto che lei stessa otterrà la candidatura.

Ma se dovesse vincere, naturalmente, niente cambierà davvero, a partire da un sistema finanziario che non è stato riformato e che si avvia a far rivivere a tutti quanti noi il crollo del 2008.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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