20 luglio 2017 16:57

Si stava ancora sparando dall’altro lato del fiume, la scorsa settimana, quando il primo ministro iracheno Haider al Abadi è apparso in pubblico e ha prematuramente dichiarato che la battaglia per la riconquista di Mosul era conclusa. Si è fatto fuorviare dalle diverse unità dell’esercito, della polizia e dalle milizie che facevano a gara tra loro per essere i primi a dichiarare la vittoria. Ma adesso è davvero finita, e di Mosul non restano praticamente che macerie.

L’assedio era cominciato il 17 ottobre 2016. È quindi durato nove mesi, più a lungo della battaglia di Stalingrado. E probabilmente ha anche ucciso un numero maggiore di civili, poiché le forze aeree guidate dagli Stati Uniti hanno compensato la mancanza di forze di terra irachene motivate e ben addestrate.

I diversi cecchini del gruppo Stato islamico (Is) sono stati regolarmente abbattuti da attacchi aerei che hanno ridotto in macerie interi edifici. La vita sta tornando in alcune periferie della riva est che sono state riprese l’anno scorso, ma non rimane più niente nella parte vecchia della città, sulla riva ovest, dove l’Is ha opposto le sue ultime resistenze. E il livello di devastazione è stato praticamente lo stesso in molte altre città.

Poche delle circa 900mila persone che vivono nei campi profughi vicino a Mosul, quasi tutte sunnite, torneranno a casa presto

Le comunità arabe sunnite in Siria e in Iraq sono in ginocchio e frammentate. I quartieri misti sciiti e sunniti di Baghdad sono stati perlopiù “ripuliti” della loro componente sunnita nella guerra civile tra il 2006 e il 2008. Anche le grandi città irachene a maggioranza sciita che sono state strappate all’Is un paio di anni fa, come Ramadi e Fallujah, sono ancora in buona parte fantasma, e ci sono pochi segni di ricostruzione.

Poche delle circa 900mila persone che vivono nei campi profughi vicino a Mosul, quasi tutte sunnite, torneranno a casa presto. In Siria, la parte orientale di Aleppo, la più grande città del paese, è caduta a dicembre dopo un assedio di quattro anni. Oggi ospita alcune decine di migliaia di persone che si aggirano tra le rovine.

Raqqa, la capitale dell’Is in Siria, sarà in buona parte distrutta nei prossimi mesi, dopodiché sarà il turno di Deir es Zor. La catastrofe cominciata nel 2003, quando l’invasione statunitense dell’Iraq ha tolto dopo secoli ai sunniti il controllo di un paese a maggioranza sciita, è arrivata nella sua fase finale.

Per gli arabi sunniti iracheni, che costituiscono solo un quinto dei 36 milioni di abitanti nel paese, è arrivato un punto di non ritorno. Sono stati rovinati dalla loro lunga complicità con il potere guidato dalla minoranza sunnita, prima sotto l’impero turco, in seguito sotto tiranni sunniti come Saddam Hussein, e infine attraverso il loro riluttante e disperato sostegno all’Is. Alcuni di loro, forse la maggioranza, rimarranno nel paese, ma non godranno di diritti pari a quelli degli altri cittadini.

Gli arabi sunniti in Siria non avranno lo stesso destino, poiché rappresentano un 60 per cento abbondante della popolazione siriana, ma la loro condizione attuale è pessima. È stato molto sciocco da parte loro appoggiare l’Is e Al Qaeda, come alla fine ha fatto la maggior parte dei combattenti sunniti in Siria (anche se è politicamente sconveniente dirlo in pubblico), e adesso stanno pagando un prezzo molto alto per questo errore.

A lungo termine, tuttavia, la maggioranza araba sunnita siriana dovrà essere reintegrata nella società del paese. Non è impossibile: milioni di sunniti delle città non hanno comunque mai combattuto contro il regime di Damasco, e hanno sempre considerato con grande scetticismo gli altri sunniti, perlopiù delle aree rurali, che morivano per la causa jihadista.

La vicenda curda
Prima che un’opera di riconciliazione possa anche solo cominciare servirà almeno un altro anno di combattimenti contro l’Is e Al Qaeda in Siria. E potrebbe servire più di un anno di scontri prima che i curdi siano nuovamente sottomessi in Siria e in Turchia.

La cittadella di Aleppo, Siria, il 24 giugno 2017. (Simon Kremer, Ap/Ansa)

I curdi sono ormai usciti allo scoperto e controllano quasi tutte le aree a maggioranza curda nel nord della Siria e molte aree rurali nella Turchia sudorientale. Da quando il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha ripreso la guerra contro i curdi della Turchia due anni fa, hanno perfino preso il controllo di grandi città a maggioranza curda nel sudest, che in alcune parti hanno oggi lo stesso aspetto delle devastate città siriane.

Quanto ai curdi iracheni, può darsi che sia impossibile farli rientrare nei ranghi. Grazie al collasso dell’esercito iracheno tre anni fa, quando l’Is ha preso il controllo di buona parte del paese in due settimane, il governo regionale curdo controlla oggi tutte le aree tradizionalmente curde dell’Iraq. Si tratta, di fatto, di un paese indipendente, che ha organizzato un referendum a settembre per ufficializzare la cosa.

Il governo iracheno si opporrà, naturalmente, ma a meno che gli Stati Uniti non siano disposti a bombardare i curdi come hanno bombardato l’Is, è improbabile che Baghdad prevalga. L’esercito iracheno non sarebbe neanche stato in grado di riprendere Mosul senza un ampio dispiego di forze aeree statunitensi.

È molto più probabile che Washington tradisca i curdi siriani, ma se non dovesse farlo, anche loro riusciranno probabilmente a conservare il loro stato di fatto all’interno di una Siria formalmente riunita (la Turchia si offrirebbe ben volentieri di distruggerli, ma di sicuro il regime siriano e i suoi alleati russi e iraniani non lo permetterebbero).

Ci sarà quindi ancora molto da combattere, e molte opportunità a disposizione degli Stati Uniti e della Russia per scontrarsi tra loro. Restiamo sintonizzati.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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