09 febbraio 2021 11:02

Se il Partito repubblicano dovesse davvero dividersi, quale nome adotterebbero gli scissionisti? Partito repubblicano dei bianchi rivoltosi libertariani dal sangue puro (Prbrlsp)? Semplicemente Partito di Trump? O magari il dirottatore in capo riuscirà anche a tenersi il nome del partito che ha preso in ostaggio, e saranno gli altri a doversi inventare qualcosa di diverso? Forse Partito conservatore?

La decisione non è imminente, perché non è ancora detto che il Partito repubblicano si divida davvero. Dopo tutto almeno 45 senatori repubblicani su 50 voteranno contro l’impeachment di Donald Trump nel processo che si apre il 9 febbraio al senato, e non sembra che queste persone siano pronte a espellerlo dal partito.

Il senatore del Kentucky Rand Paul guida la fazione che vorrebbe accantonare l’accusa contro Trump di “incitamento alla rivolta contro la repubblica”. “L’impeachment serve a destituire un presidente. L’accusato, in questo caso, ha già lasciato l’incarico”, ha dichiarato Paul, riproponendo la giustificazione con cui il partito si rifiuta di condannare Trump senza però legittimare il tentativo di colpo di stato.

Eppure il 6 gennaio, poche ore dopo che la folla aveva abbandonato il Campidoglio, Paul aveva usato parole dure contro la possibilità che un qualunque esponente del congresso tentasse di ribaltare il risultato delle elezioni certificato dagli stati, che era invece lo scopo preciso con cui Trump aveva invitato i suoi sostenitori ad assaltare il congresso. Evidentemente Paul vive un conflitto interiore, e lo stesso vale per il suo partito.

La vicenda è più profonda di quanto sembri. Per accorgersene basta considerare la differenza di comportamento dei repubblicani in occasione del voto segreto alla camera del 3 febbraio e di quello palese del 4 febbraio.

I deputati repubblicani sono deboli e pavidi, ma nella maggior parte dei casi non sono individui malvagi

Il 3 febbraio, votando in un caucus chiuso, i deputati repubblicani hanno confermato Liz Cheney come terza carica del partito alla camera bassa, e questo nonostante Cheney avesse “tradito” Donald Trump votando a favore dell’impeachment. Il margine della votazione è stato ampio, con 145 deputati favorevoli e appena 61 contrari.

Il giorno successivo, però, i repubblicani hanno tenuto un’altra votazione, questa volta aperta, sulla possibilità che Marjorie Taylor Greene, fanatica sostenitrice di Trump con idee malsane e ben oltre il limite della follia, conservasse il suo incarico all’interno di diverse commissioni parlamentari. I deputati repubblicani favorevoli alla conferma di Greene sono stati 199, e solo 11 i contrari.

Per inciso Green è una sostenitrice del movimento complottista QAnon ed è convinta che gli incendi della California siano stati causati da raggi laser provenienti dallo spazio e manovrati dagli ebrei, oltre a sostenere che gli attentati dell’11 settembre siano stati portati a termine dai servizi segreti e che i massacri nelle scuole siano una messa in scena organizzata dai democratici. Essere seduti accanto a lei dev’essere piuttosto imbarazzante.

Alla fine Green ha comunque perso i suoi incarichi, perché i democratici hanno votato per la sua espulsione. Ma è probabile che in un voto segreto anche la maggior parte dei repubblicani avrebbe voltato le spalle a Green, magari con gli stessi numeri registrati alla vigilia in favore di Liz Cheney.

I deputati repubblicani sono deboli e pavidi, ma nella maggior parte dei casi non sono individui malvagi. In una votazione aperta si sono sentiti costretti ad appoggiare Green, perché altrimenti i lealisti di Trump che controllano i loro distretti avrebbero fatto in modo che non fossero mai più eletti. Ma in realtà molti di loro sarebbero felici di scaricare l’ex presidente se potessero farlo senza pagarne il prezzo.

Chi sopravviverà?
Non sarà facile, perché effettivamente Trump è molto pericoloso per le persone che è in grado di colpire, ovvero quasi tutti i parlamentari repubblicani. In ogni caso queste due votazioni contraddittorie dimostrano che il partito è avviato verso la scissione. Resta da capire quale delle due versioni sopravviverà più a lungo.

Di solito quando un partito politico si divide le cose vanno peggio per chi viene percepito come artefice della separazione. I vertici del “vecchio” partito mantengono i conti bancari e le liste di donatori, e tendono ad apparire più responsabili. Questo può essere un chiaro vantaggio politico in un contesto turbolento.

Dunque per la parte sana del Partito repubblicano la priorità dovrebbe essere quella di provocare una scissione al più presto possibile, e al contempo assicurarsi che la responsabilità ricada sui trumpisti. Riuscirci non dovrebbe essere particolarmente complicato, considerando che ai comandi al momento c’è Donald Trump. Certo, è un rischio, ma resta il fatto che i veri conservatori non hanno un futuro all’interno di un partito dominato da Trump.

La scissione diluirebbe i voti della destra? Naturalmente sì, ma è troppo tardi per preoccuparsi di questo. Magari i democratici vinceranno di nuovo alle elezioni di metà mandato del 2022, ma se la spaccatura si verificherà abbastanza presto, la guerra civile potrebbe concludersi in tempo per permettere ai repubblicani di costruire una base solida in vista delle presidenziali del 2024. Inoltre è possibile che a quel punto Trump sia definitivamente uscito di senno ma sia ancora presente nel panorama politico. Questo faciliterebbe il processo.

Resta il problema del nome del nuovo partito di Trump. Suggerirei Monster Raving Loony Party (Partito mostruoso delirante fuori di testa), ma è già stato preso.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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