La governatrice (first minister) scozzese, Nicola Sturgeon, nel 2014 aveva dichiarato che il referendum sull’indipendenza della Scozia, voluto e perso quell’anno, sarebbe stato organizzato “una volta per generazione”. Quella generazione si è rivelata di durata molto breve.
Il Regno Unito ha votato per lasciare l’Unione europea nel 2016, in un referendum nel quale gli inglesi hanno approvato l’uscita (leave) mentre gli scozzesi hanno chiesto di restare (remain). Subito dopo quel voto, Sturgeon aveva detto che le circostanze erano cambiate abbastanza da giustificare un altro referendum sull’indipendenza della Scozia. Stavolta, sperava, gli scozzesi avrebbero votato per uscire dal Regno Unito ed entrare nell’Ue.
La giusta risposta da parte di Londra sarebbe dovuta essere “va bene, facciamo che vince chi ottiene due vittorie su tre”, ma Sturgeon non avrebbe mai accettato. L’indipendenza è un processo a senso unico. Nessun movimento indipendentista ha mai promesso che, se il popolo vota sì e poi cambia idea, si potrà organizzare un altro referendum e tornare alla situazione precedente.
Senza maggioranza
Oltretutto, Boris Johnson è diventato primo ministro solo perché al referendum del 2016 ha vinto chi voleva la Brexit. Ha lottato con le unghie e con i denti per evitare un secondo referendum sulla questione (che dalla metà del 2017, secondo alcuni sondaggi, avrebbe avuto un esito contrario all’uscita). E, oggi, Johnson non accetterebbe qualcosa di simile per la Scozia.
Nicola Sturgeon ha descritto il modesto successo dello Scottish national party (Snp) nelle elezioni amministrative del 6 maggio (che prevedevano anche il rinnovo dei parlamenti regionali in Scozia e in Galles, dotati di autonomia su alcune questioni) come un evento “storico e straordinario” che giustifica la sua richiesta di un secondo referendum, ma in realtà ha ottenuto appena un seggio in più della volta precedente.
L’Snp non è ancora in grado di costituire una maggioranza. Nel parlamento scozzese formerà un’altra coalizione, o almeno un’alleanza elettorale, con il Partito verde, anch’esso indipendentista, per formare un governo. Non ha insomma il controllo della situazione, né in Scozia né nel Regno Unito più in generale.
Sono proprio gli elettori scozzesi il principale ostacolo alle speranze di Sturgeon
Johnson, naturalmente, ha dichiarato apertamente la sua contrarietà a un secondo referendum per l’indipendenza. La legge è dalla sua parte. L’allegato 5, parte 1 dello Scotland act afferma che su alcuni aspetti della costituzione – come l’unione tra Scozia e Inghilterra – può decidere esclusivamente il parlamento britannico di Westminster.
Il 90 per cento dei parlamentari a Westminster non è scozzese e ben più della metà di loro appartiene al Partito conservatore di Johnson. Per questo Sturgeon non può aspettarsi alcun aiuto. Continua a sostenere che porterà la questione in tribunale, ma la legge è chiara e anche le speranze che i giudici possano darle ragione sono minime.
In ogni modo, sono proprio gli elettori scozzesi il principale ostacolo alle sue speranze. I recenti sondaggi d’opinione e le elezioni del 6 maggio raccontano la stessa cosa: una divisione esattamente a metà sul tema dell’indipendenza. È un modesto miglioramento rispetto al 55 per cento di contrari all’indipendenza nel referendum del 2014, ma non abbastanza per chiedere oggi di organizzarne un altro.
Pensarci due volte
Inoltre, alcuni elementi potrebbero rendere gli elettori scozzesi più dubbiosi a proposito dell’indipendenza. Il nuovo “confine” tra il Regno Unito e l’Unione europea, tracciato nel mare d’Irlanda per evitarne uno di terra tra l’Irlanda del Nord (parte del Regno Unito) e la Repubblica d’Irlanda (paese dell’Ue), sta spingendo i nazionalisti scozzesi a pensarci due volte.
Le circostanze sono diverse: sul confine tra la Scozia e l’Inghilterra non ci sono più state guerre dopo il 1547. Ma entrare nell’Ue fa parte del pacchetto offerto dallo Snp, e i problemi al confine irlandese servono a ricordare agli scozzesi che, se la cosa andasse in porto, esisterebbe un confine “duro” tra Scozia e Inghilterra.
Una complessa e costosa questione che appare di difficile risoluzione. Il governo di Boris Johnson ha scelto l’accordo di Brexit più duro possibile, e quindi l’eventuale ingresso della Scozia come paese sovrano nell’Ue dovrebbe fare i conti con dazi doganali, controlli migratori e complicazioni di ogni genere al confine con l’Inghilterra. La Scozia perderebbe anche le circa duemila sterline di sussidi pro capite che ogni cittadino riceve attualmente dal governo britannico.
Una Scozia indipendente sarebbe un paese plausibile, con una superficie e una popolazione analoghe a quelle della Danimarca. Manca però un sentimento d’indignazione crescente che renda questa indipendenza necessaria. Può sembrare una prospettiva allettante, ma la maggior parte delle persone pensa anche ai disordini e ai costi che si pagherebbero per una simile secessione.
Nicola Sturgeon lo sa e anche se parla di referendum, promette di non fare nulla fino a quando sarà finita la pandemia di covid-19. È ragionevole pensare che, quando questo accadrà, troverà un’altra ragione per rinviare ancora le sue richieste, perché una seconda sconfitta referendaria rappresenterebbe la fine dell’indipendentismo per una generazione. Una vera generazione, stavolta.
Proprio come è accaduto in Canada dopo il secondo referendum per l’indipendenza, fallito in Québec nel 1995.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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