07 novembre 2018 19:31

Alle tre del mattino ora di Greenwich, dopo già tre ore di attesa davanti alle tv americane con le loro magnifiche grafiche elettorali, l’onda blu annunciata dai sondaggi sembrava essersi infranta sugli scogli del Texas, dove Ted Cruz resisteva alla sfida di Beto O’Rourke, della Florida, dove Andrew Gillum, pupillo di Obama, non ce la faceva contro Ron De Santis, della Georgia, dove Stacey Abrams, prima donna nera della storia a lanciare il guanto della sfida, si fermava a due punti dal ventinovesimo governatore bianco, e repubblicano, Brian Kemp. E invece, via via che l’alba avanzava in Italia, la sera calava sulla California e si aprivano le urne degli stati dell’ovest, la blue wave montava eccome. Solo un’increspatura, mica uno tsunami, si è precipitato a twittare Donald Trump di buon mattino. Ma l’onda è alta, e lui non sarà più quello che è stato finora, anche se sarebbe azzardatissimo dire che le elezioni di metà mandato abbiano decretato la fine della sua funesta avventura.

Con 220 seggi conquistati alla camera, due in più di quanti ne servissero per controllarla, e sette governatori strappati all’avversario, il Partito democratico americano esce dal cono d’ombra della sconfitta di Hillary Clinton nel 2016 e il congresso americano esce dal controllo monocratico repubblicano durato otto lunghi anni. È quanto basta per un cambio di passo nella politica istituzionale statunitense, ed è quanto dovrebbe bastare anche per l’avvio di un cambio di stagione strategico che sconfigga e archivi, negli Stati Uniti e non solo, l’esplosione populista-sovranista. Non è detto che le due cose procedano insieme. Ma intanto per l’opposizione a Trump si annunciano tempi promettenti: la nuova camera a maggioranza democratica diventerà il teatro di inchieste a raffica sugli affari, i redditi mai dichiarati, i conflitti d’interesse, il Russia gate e tutte le altre opacità che hanno contrassegnato l’ascesa del presidente. Il quale avrà dalla sua, d’altra parte, il rinnovato e rafforzato controllo del senato, il che significa, fra l’altro, rinnovato e rafforzato potere di nomina sui giudici dell’alta corte, con quello che ne consegue per la politica trumpiana di smantellamento dei diritti sociali e civili. Si apre una fase, come si dice in gergo, di ulteriore polarizzazione e inasprimento della lotta politica. E non solo a Washington.

La polarizzazione vera è quella tra l’America delle diversità e della pluralità contro l’America bianca e asserragliata

È anche e soprattutto una polarizzazione sociale, infatti, quella che emerge dal voto. Non più lungo la linea che finora colorava di blu le due coste del paese e di rosso l’interno della carta geopolitica degli Stati Uniti, ma lungo una linea che divide le zone rurali e bianche, saldamente in mano a Trump e alla sua base, dalle città e dalle periferie urbane da cui è partita e montata la blue wave della “resistenza” confluita nel voto democratico. La polarizzazione vera, strutturale, dunque è questa: l’America delle diversità e della pluralità, del meticciato e delle coalizioni, l’America femminista, colored e millennial, contro l’America bianca e compatta, proprietaria e asserragliata, nostalgica di un’identità inesistente e fantasmatica. Una polarizzazione di cui Trump è stato ed è effetto e agente, dietro lo slogan, fintamente unitario come tutti gli slogan populisti, dell’America first.

In questo senso, e ben al di là della conta dei seggi parlamentari, le elezioni di metà mandato riaprono il cerchio del conflitto simbolico che si era chiuso malamente il 9 novembre di due anni fa. Allora, l’elezione dell’outsider bianco, macho, misogino e suprematista fu il segno più che della ribellione contro l’establishment che molti vollero vederci, di una reazione alla politica post-identitaria del primo presidente nero e alla possibile presidenza di una donna, per quanto sbagliata fosse la candidatura e per quanto consunto fosse il femminismo neoliberale di Hillary Clinton. Oggi le elezioni premiano una resistenza costruita sull’intersezionalità post-identitaria fra segmenti diversi (le cosiddette minoranze, ma anche la nuova stratificazione sociale disegnata dal ciclo economico) della società americana, con in prima linea un nuovo femminismo che manda al congresso cento donne, per la prima volta nella storia e con molti primati fino a ieri impensabili – ne abbiamo già scritto – e viene coralmente riconosciuto come la novità più rilevante e più decisiva di questa stagione politica.

Nel giro di due anni dunque i termini del problema si sono ribaltati, e il conflitto simbolico sull’identità americana si riapre. Il che non vuol dire che sia risolto, o superato: al contrario, è prevedibile che si indurirà, perché l’onda democratica c’è ma Trump e il trumpismo restano forti e radicati, e il Partito repubblicano ne resta fondamentalmente ostaggio, costretto a ripiegare anch’esso sempre più sulla linea arroccata e reazionaria del presidente. La società americana, però, si è rimessa in movimento, e il Partito democratico da questo movimento si è lasciato, bon gré mal gré, attraversare e scuotere: molti dei profili degli eletti e soprattutto delle elette trasmettono il ricambio di genere e di generazione che è in corso, insieme a uno spostamento verso sinistra delle lancette dell’orientamento politico.

Ne dovrebbe rimbalzare qualche lezione su questa sponda dell’Atlantico. Certo la blue wave non basta a fugare il pericolo della longa manus di Trump sulla decostruzione dell’Europa da parte dei sovranisti di casa nostra. Ma dovrebbe bastare a far capire alla società europea che contrattaccare è possibile, e a ciò che resta della sinistra europea che essa non avrà alcuna prospettiva di rinascita senza fare i conti – prima che con il “suo” popolo che l’ha abbandonata – con i cambiamenti demografici da cui il popolo è continuamente ridisegnato e con le scintillanti diversità di pelle, di cultura, di genere e di generazione che lo attraversano.

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