05 aprile 2015 18:20

Non volevo vedere quella foto.

La foto del massacro del campus universitario di Garissa che ha lasciato per terra 148 studenti.

Ho fatto di tutto per non incrociarla su Twitter. Ma quella foto si è imposta a me con il suo carico di morte e disperazione. Corpi giovani, privati di futuro, seminudi, ammazzati come topi. Ragazzi che il giorno prima di quel massacro pensavano ai loro amori, agli esami, a un viaggio da fare, alla festa di fine corso, all’ultima canzone di quel gruppo rap che va per la maggiore. Ragazzi con pensieri semplici e bellissimi. Ragazzi come lo sono stata io a vent’anni. Poi la morte, brutale, assassina.

Alla fine l’ho guardata, quella foto, e l’ho trovata sbagliata. C’era qualcosa di profondamente e orribilmente sbagliato nel mio, nel nostro, guardare. Il mio disagio inespresso ha preso corpo (e direi anche un po’ di coraggio) dopo la lettura del tweet del giornalista del Washington Post Ishaan Tharoor. Rivolgendosi a Jon Lee Anderson del New Yorker, che aveva twittato la foto, Tharoor ha scritto: “Avresti twittato le immagini di quei corpi se fosse stato negli Stati Uniti?”.

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Il tweet genera risposte, dibattito. Il giornalista del New Yorker insiste dicendo che se non avessimo visto l’Olocausto non avremmo mai capito il male provocato da Hitler. Ma anche per la Shoah, penso, si è parlato in molti libri di voyeurismo, dello sguardo (soprattutto sui corpi nudi di donna) partecipe (a volte complice) con quello dei carnefici nazisti.

È complicato, penso. Ritorno al dibattito e vedo che Ishaan Tharoor non molla. Per sua stessa ammissione il giornalista del Washington Post fa l’avvocato del diavolo: “Avresti twittato l’immagine dei bambini uccisi a Sandy Hook? La scena è la stessa: studenti morti”.

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Sandy Hook me lo ricordo ancora. Ne fui scossa. Ricordo quel massacro del 14 dicembre 2012 nella cittadina del Connecticut. Un ragazzo di vent’anni, Adam Lanza, dopo aver ucciso sua madre, aveva ucciso in una scuola elementare venti bambini di età compresa tra i 6 e i 7 anni e alcuni maestri. Ventisette morti. Obama in quell’occasione aveva detto: “Ogni genitore in America ha il cuore colmo di dolore”.

Nessuno si è sognato di fotografare quei corpi senza vita oltraggiati dalle pallottole. E anche se qualcuno lo avesse fatto sarebbe stato giustamente linciato sui giornali.

Anche dopo la strage di Charlie Hebdo nessuno – per fortuna, aggiungerei – ha visto i corpi crivellati di Cabu, Charb, Tignous, Wolinski. Abbiamo però visto Ahmed, il poliziotto musulmano, ucciso come nei peggiori film western dai due terroristi.

Guardo la foto del massacro nel campus di Garissa. A nessuno è venuto in mente che quella foto poteva turbare le famiglie? Chi ha perso un figlio, un nipote, un amore. Nessuno ha pensato a loro? Ai loro sentimenti? Al loro dolore? Quella foto mi ricorda un quadro del cinquecento visto al Prado di Madrid. Il Trionfo della morte di Pieter Bruegel. Anche lì corpi riversi, quasi senza identità. Per Bruegel la morte appiattiva tutto, il re e il povero accomunati dallo stesso destino finale.

Il trionfo della morte. (Pieter Bruegel il Vecchio, Dr)

La livella di Totò, quella che ti fa perdere insieme alla vita anche il nome. Ma non sono sicura che la livella valga per il destino immediato dei corpi. Spesso questo dipende da quello che siamo stati in vita o, come nel caso di Garissa, dalla geografia. Quei corpi riversi erano neri, africani, di una zona povera del mondo. Per loro niente privacy, solo oltraggio. Se fossero stati corpi bianchi li avremmo visti? Non so darmi una risposta. Sono confusa, addolorata. Ishaan Tharoor parla apertamente di disparità di trattamento. Disparità… E se fosse vero?

Anche in Italia si è parlato di quella foto, di quei corpi. Lo scrittore Paolo Giordano, premio Strega per La solitudine dei numeri primi, ha scritto sul Corriere della Sera:

L’esercizio che dovremmo fare davanti a questa fotografia è semplice. Riguardarla, ancora una volta, ma alla pelle scura dei volti schiacciati contro il pavimento, dei toraci nudi e delle braccia, sostituire una carnagione chiara, rosata – più simile alla nostra. Retorico? patetico? Forse. Eppure di rado ci ricordiamo di farlo. Siamo in buona parte educati e terzomondisti, ma resiste in noi un nocciolo di apatia, ed esso non conosce evoluzione, ragiona in maniera istintiva o non ragiona affatto. Cambiare colore alla pelle dei ragazzi riversi fra le sedie e le chiazze di sangue rappreso cambia ancora qualcosa nella nostra reazione.

Capisco le sue buone intenzioni. Ma c’è qualcosa che non va nelle sue parole. Da nera italiana mi sento esclusa dal suo ragionamento, dal suo “esercizio”. Mi agghiaccia che usi una parola come “terzomondista”. Non credevo fosse ancora possibile usare una parola così antica e che puzza di colonialismo paternalista. Il Terzo mondo non esiste, non è mai esistito. È solo il nome che l’occidente ha dato al sud per sfruttarlo meglio, per relegarlo a un ruolo marginale.

Ma quello che veramente mi agghiaccia è l’esercizio di sostituzione, di trasformazione dei corpi, che ci chiede di fare lo scrittore. Trasformare quei corpi neri in rosa, dipingerli di bianco per immedesimarci.

Lo so che Paolo Giordano non è razzista. Ma quello che c’è nella sua pancia è qualcosa che circola nella società italiana, una società che con l’alterità di corpi e culture ancora non ci sa fare. Si usano non solo parole sbagliate, ma atteggiamenti sbagliati. Mi chiedo: non basta l’umanità che ci accomuna tutti per immedesimarci? Perché trasformare un corpo nero in bianco?

Nell’articolo uscito sul Corriere della Sera, Paolo Giordano insiste molto anche su un altro elemento: i corpi sono “cristiani”. Lo fa lui e insieme a lui tutto il mainstream occidentale. Certo gli studenti erano cristiani e gli Shabaab, il gruppo terrorista con base in Somalia, musulmani. Ma questo non autorizza lo scontro di civiltà. Io che sono di origine somala e musulmana lo so, sono anni che Shabaab uccide musulmani somali in Somalia nel silenzio generale.

Il problema dell’Africa orientale è di fatto la guerra civile somala che dura da ventitré anni e che ha prodotto guasti che si propagano ovunque, soprattutto in Kenya. La Somalia è una zona di traffici, ma anche uno dei paesi africani, insieme alla Nigeria, con più petrolio – sembra più di Qatar e Kuwait messe insieme.

Ha ragione Seble Woldeghiorghis, madre eritrea e padre etiope, italianissima e africanissima, che lavora al comune di Milano e su Facebook scrive: “Non voglio condividere le foto dei cadaveri degli studenti di Garissa. In questa maniera non si onorano i morti, ma si fa da cassa di risonanza a chi li ha ridotti così. Impariamo invece a parlare del continente africano, un pezzo di mondo e di persone che meritano più attenzione e approfondimento. Non solo oggi”.

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