18 luglio 2015 10:45
Una foto della campagna #italianononèuncolore. (Carlos Tomas Lora Acosta)

Samsara in sanscrito significa “rinascita della vita” ed è il nome di un famoso profumo. Il suo realizzatore, Jean-Paul Guerlain, per crearlo andò fino in India a cercare il legno di sandalo più puro e un tipo di gelsomino che era usato per le offerte religiose. Esotismo, romanticismo, lusso. Tutto si sposa all’immagine che Jean-Paul Guerlain ha saputo dare di se stesso: un signore d’altri tempi, bonario e sempre vestito elegantemente.

Questa immagine però non sarebbe completa senza l’edizione del telegiornale di France 2 andata in onda il 15 ottobre 2010. In quella occasione il re dei profumi francesi alla domanda sulla lavorazione di Samsara disse una frase che lasciò sbigottita e raggelata mezza Francia: “Per una volta mi sono messo a lavorare come un negro. Anche se non so se i negri abbiano mai lavorato tanto, ma insomma…”.

Ci furono manifestazioni di protesta a Parigi e non solo. Dopo un po’ di tempo Guerlain fu condannato ufficialmente.

Tra i manifestanti c’era anche la documentarista Isabelle Boni-Claverie. Lei, come molti altri, era preoccupata per la piega razzista che stava prendendo il discorso pubblico in Francia. Non solo la politica stava sdoganando un linguaggio violento e offensivo, ma in quegli anni si apriva il dibattito sull’identità nazionale francese voluto da Nicolas Sarkozy. Un modo, si disse all’epoca, per avvicinarsi e superare le posizioni oltranziste del Front national. Ne uscì fuori una Francia fortezza che voleva tenere in un ghetto tutto ciò che non era assimilabile.

Troppo nera?

E lì prese a farsi strada in Boni-Claverie l’idea del documentario. Cominciò a farsi domande su domande. Per esempio, si chiedeva se i neri, per il resto della Francia, erano dentro o fuori il sistema nazione. Se la république metteva sullo stesso piano i suoi cittadini.

Apparve sempre più chiaro a Boni-Claverie che la classe e il colore in Francia erano ancora un elemento di differenziazione, nel migliore dei casi, o di esclusione nel peggiore. Il nero non era considerato un colore nazionale. Da queste riflessioni prende il via il documentario Trop noire pour être française? andato in onda il 3 luglio su Arte.

La regista parte dalla sua vita per realizzare un’opera collettiva, dove la sua voce e la sua biografia servono a smascherare il razzismo della république.

Ed ecco che i ricordi di infanzia cominciano a prendere peso. Vediamo la piccola Isabelle a sei anni che ha una voglia matta di interpretare la vergine Maria alla rappresentazione scolastica, ma viene dirottata sul personaggio di Baldassarre, uno dei re magi. Come mai lei, una bambina, doveva interpretare un maschio? Isabelle Boni-Claverie come tutti era circondata da immagini umilianti per un nero, ma prima (anche per lei) la percezione del discrimine era minore rispetto a oggi. E anche le caricature televisive pesantemente razziste di Michel Leeb erano solo un elemento in più del paesaggio naturale.

Durante la messa in onda del documentario l’hashtag #tropnoire ha avuto un discreto successo anche in Francia. La ferita è aperta. La stessa Isabelle Boni-Claverie dirà con chiarezza che “il principale motivo di discriminazione in Francia è l’origine, un eufemismo per non dire colore della pelle”. Il colonialismo è essenziale per capire questa divisione della società.

Un colonialismo francese che (come tutti i colonialismi) non solo dominava la gente a cui aveva tolto la terra, ma vessava i suoi sudditi umiliandoli e mettendoli in condizione d’inferiorità. Si potrebbe obiettare che il colonialismo sia finito parecchio tempo fa, che è acqua passata ma, come ricorda nel documentario lo storico Pap Ndiaye, “gli stereotipi servono a mantenere alcune forme di disuguaglianza che avvantaggiano una parte di società francese”.

Quindi il colonialismo, con tutto il suo armamentario, non è mai finito davvero.

Terze generazioni

Una presa di posizione forte quella di Isabelle Boni-Claverie, che però ha riscontri anche altrove in Europa. Per esempio, in Italia la questione è approdata sul web con la campagna partita a maggio #italianononèuncolore lanciata dall’art director Carlos Tomas Lora Acosta e dall’associazione Questa è Roma, impegnata da anni nella lotta per far ottenere la cittadinanza ai figli di migranti nati o cresciuti in Italia. I volti dei 115 ragazzi coinvolti sono dipinti di bianco. Nessuno di loro è identificato da un nome o da un cognome. Sono semplicemente unknown, sconosciuti. Numeri, seguiti dalla dicitura umano/a.

Ognuno ha in mano un cartello con scritto “Adesso posso…? ”.

Adesso posso amare? Adesso posso sognare? Adesso posso sbagliare? Adesso posso decidere? Adesso posso votare? Adesso sono italiano?

Adesso che sono bianco posso avere i diritti che spettano a tutti i cittadini?

C’è in questa campagna una dose di sana provocazione. Ormai non siamo più alle seconde generazioni, ma alle terze. Persone che hanno vissuto tutta la loro vita in Italia si vedono ancora negare questo diritto elementare di cittadinanza e si ritrovano a essere come dice il rapper italoegiziano Amir Issa “stranieri nella propria nazione”. Persone non ascoltate né considerate dalla politica che non legifera sulla loro condizione paradossale. L’Italia annuncia sempre l’avvio di un iter verso lo ius soli, ma di fatto dopo le promesse fatte dai vari governi e dopo i numerosi appelli (ricordiamo quelli dell’ex presidente Giorgio Napolitano) nel paese non succede nulla su questo fronte.

Il bianco è un insieme di privilegi, non un colore. Bianco è una costruzione sociale

Ma torniamo alla campagna.

La scelta del colore bianco, che punteggia o attraversa i visi di ragazzi di origine africana, asiatica, araba, sudamericana, di fatto è una denuncia di una sorta di “bianchitudine” (whiteness) imposta al concetto di identità nazionale. Una whiteness che non scelgono, ma di cui si appropriano come ultima spiaggia, come gesto estremo.

Il bianco sui loro volti colpisce. È un bianco accecante, netto, senza sfumature. Molto diverso dal colore degli italiani considerati bianchi che è più identificabile con un rosa. A questo pensiero ne segue subito un altro: ma gli italiani sono bianchi? E i francesi?

Se una parte della popolazione è considerata trop noire, troppo nera, troppo esotica, allora come vede se stessa quella che si definisce bianca?

Il bianco è un insieme di privilegi, non un colore. Bianco è una costruzione sociale. Un club esclusivo dove si può essere accettati se si hanno le “giuste” credenziali o dove si può correre il rischio di essere cacciati.

Per esempio, gli italiani non sono sempre stati considerati bianchi. Negli Stati Uniti gli immigrati italiani erano spesso vittime di linciaggi atroci e spesso non potevano sposare donne anglosassoni. Erano considerati quasi pagani con la loro ritualità cattolica debordante e tra i migranti erano i più sfruttati e sottopagati. In questo senso basti pensare al lavoro dei tanti minori italoamericani nelle fabbriche tessili o nelle miniere. Finché serviva sfruttarli gli italiani non sono stati bianchi.

Essere italiani era un problema, spesso era meglio fingersi qualcun altro per non essere vittima di razzismo. Lo scrittore John Fante nel suo brillante racconto Odissea di un wop fa capire come si potesse di fatto arrivare a detestare se stessi a causa delle discriminazioni:

Insomma prendo a detestare le mie origini. Evito i ragazzi e le ragazze italiane dai modi amichevoli. Ringrazio Dio per la mia pelle chiara e per i capelli, e i miei compagni me li scelgo in base al suono anglosassone dei loro nomi. […] Però sto sempre un poco in apprensione quando sono con loro; potrebbero scoprirmi

Ha anche paura di portare i suoi nuovi compagni a casa, nella sua casa troppo italiana e con la nonna più italiana della casa stessa “una wop senza speranza” la definisce Fante. Wop era il modo denigratorio con cui l’America dei privilegi definiva gli italiani, derivava da guappo ed era in contrapposizione con wasp, la bianchitudine di origine anglosassone, quella della classe dominante, quella a cui si doveva somigliare.

Il wop era troppo cattolico, troppo olivastro, troppo povero, in poche parole spazzatura bianca. Fante nel suo racconto fa vedere come spesso in una società dove la discriminazione e la casta regolano tutto, una persona può interiorizzare così tanto il pregiudizio da arrivare a negare non solo l’appartenenza, ma anche gli affetti. Il protagonista del racconto infatti ci dice che sa l’italiano e chiacchiera con la nonna in questa lingua, ma “quando ci sono i miei amici, fingo di non capire quello che dice, e faccio dei sorrisi affettati”.

Si doveva prendere distanza quindi dalle “nonne”, dalle origini.

Non a caso tempo fa, memore di questa storia di dolore, un dj nero di nome Chuck Nice, della stazione radio Waxq-Fm di New York, in una trasmissione del mattino disse che “gli italiani sono negri dalla memoria corta”.

Naturalmente la frase scatenò un putiferio. Ma quello che voleva sottolineare il dj con parole provocatorie e totalmente irriverenti era la natura speciale della bianchezza degli italiani. Il fatto è ricordato in un bel volume pubblicato nel 2003 a cura di Jennifer Guglielmo e Salvatore Salerno, Gli italiani sono bianchi?. Il libro indaga attraverso vari saggi il rapporto degli italoamericani con il colore della classe dominante. Come dice Amoja Three Rivers “i bianchi non sono sempre stati bianchi e non lo saranno per sempre. Si tratta di un’alleanza politica. Le cose cambieranno”.
E ci fa vedere come questo concetto di whiteness, di essere bianchi, è provvisorio. Un giorno ci stai dentro, sei accettato, il giorno dopo puoi anche starne fuori, puoi esserne cacciato a pedate. Non è un dato acquisito. E allora come uscire da questa marmellata impazzita di colori? Dal troppo nero, poco bianco?

La soluzione forse è solo nel percorso, nel lavoro quotidiano, nella costruzione di una reale società meticcia. Per esempio in Italia, senza andare troppo lontano, si potrebbe cominciare dando la cittadinanza ai tanti nati o cresciuti nella penisola. Sarebbe già un passo.

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