12 marzo 2019 13:35

Ho in mano il passaporto di una donna somala. Un passaporto rilasciato nel novembre del 1970, un oggetto da collezione. Già prima di aprirlo sono colpita dalle scritte “Repubblica somala” e “Somali republic”, in italiano e in inglese, che riassumono la storia coloniale del paese: il sud colonizzato dall’Italia e il nord dal Regno Unito. Sul documento si precisa che è valido per l’espatrio. Un’altra cosa mi colpisce: alla proprietaria del passaporto era stato rilasciato dal consolato italiano di Mogadiscio un visto turistico per l’Italia, con la specifica “via aerea”.

Scorrendo le pagine si vede in controluce la vita della donna in Italia. Il suo permesso di soggiorno era stato rinnovato più volte, per due, tre, quattro mesi, un anno. E poi rinnovi del documento, un visto per l’India e uno per il Benelux, mai usati. Rigiro tra le mani quest’oggetto che ha permesso alla donna di prendere un aereo e di essere trattata come un essere umano. Certo, la sua condizione non era perfetta, aveva solo visti turistici, ma poteva spostarsi. Oggi la situazione è peggiorata. Il documento somalo è agli ultimi posti del Passport index, che classifica i passaporti in base alla possibilità di viaggiare senza visti. Oggi un somalo non può andare da nessuna parte senza visto, e spesso è inutile chiederlo perché non si ottiene mai.

A Mogadiscio le ambasciate servono solo per rappresentanza, non sono aperte per le pratiche burocratiche. Lo stesso vale per paesi che hanno vissuto situazioni di caos simili: dalla Nigeria al Mali, i consolati stranieri, africani o europei che siano, raramente rilasciano visti e, quando lo fanno, danno il via a una spirale burocratica mortale. Rispetto agli anni settanta e ottanta del novecento, per un africano è diventato complicato viaggiare dentro e fuori del continente. Sempre più spesso ci si affida a trafficanti senza scrupoli. Vediamo la fortezza Europa che crea lager, blocca navi, costruisce intere campagne elettorali sulla pelle di persone che vogliono solo muoversi. Si parla di un’invasione che in realtà non c’è. E molti non sanno che i problemi nascono da questo tappo alla mobilità, messo per impedire ogni forma di spostamento a chi non ha un passaporto “forte”. Gli stessi visti che venivano rilasciati una quindicina d’anni fa oggi sono negati.

Bisogna cambiare passo
Quando quest’anno è stato impedito lo sbarco in Italia ai passeggeri di varie navi di migranti, è cominciata una campagna con lo slogan #apriteiporti. Una richiesta giusta e saggia. Non si può far soffrire la gente per un braccio di ferro politico. Gli sbarchi sono diminuiti, si dice, ma a che prezzo? Sappiamo che chi non riesce a salire su un barcone con molta probabilità è prigioniero in Libia.

Bisognerebbe cambiare passo e chiedere a gran forza #apritegliaeroporti o #legalizzateilviaggio, che oggi è lasciato in mano ai trafficanti. Sono loro a dettare i prezzi, a creare le rotte, a ricattare i migranti ma anche i governi. Oggi i migranti, spesso persone della classe media e con parenti all’estero, spendono cifre altissime per spostarsi. Ma se potessero viaggiare legalmente gli basterebbe pagare il visto e il volo aereo. Il viaggio diventerebbe una possibilità, la migrazione una delle tante variabili, non l’unica. Si andrebbe all’estero per studio, lavoro, specializzazione, lavoro stagionale, esperienza di qualche anno. Alcuni, i rifugiati, chiederebbero la protezione umanitaria, ma altri andrebbero a lavorare o studiare. Il viaggio tornerebbe a essere circolare.

Oggi invece è una trappola, in cui perdono tutti. E perde soprattutto l’Italia, costretta a essere il mastino dell’Europa ricca. Se fosse possibile viaggiare in modo legale, l’Italia potrebbe diventare invece una cerniera tra i due continenti.

Questo articolo è uscito nel numero 1295 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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