05 aprile 2020 09:45

Quando tutto è cominciato, quando la crisi del coronavirus ha sconvolto le nostre vite, giornali e riviste un po’ in tutto il mondo si sono subito riempiti di diari più o meno intimi della quarantena. Scrittrici e scrittori sono stati contattati dalle testate mainstream per descrivere com’era la loro vita in casa. L’idea in potenza poteva essere molto buona, ma i risultati sono stati scarsi o addirittura controproducenti.

Basti pensare a quello che è successo in Francia quando Le Monde ha pubblicato la prima puntata di una serie di articoli commissionati a Leïla Slimani, scrittrice premio Goncourt, sulla sua quarantena. Già dalle prime battute il testo ha mostrato tutta la sua inadeguatezza. La visione bucolica della campagna, descritta da Slimani mentre osserva fuori dalla finestra di casa sua in Normandia, è sembrata fuori luogo ai più. Una quarantena di lusso che ha fatto storcere il naso a più di un lettore. In molti hanno criticato le sue parole, definendole indecenti e borghesi. La scrittrice è stata accusata apertamente di indifferenza di classe, di non capire i problemi di tutte quelle famiglie costrette a vivere in pochi metri quadrati, non in campagna, ma nelle grigie periferie metropolitane.

Il coronavirus insomma ha acuito quelle fratture che in condizioni normali erano già pesanti e in tempi di contagio sono diventate semplicemente insostenibili. Nei primi giorni dell’emergenza il mondo degli scrittori e delle scrittrici è sembrato ad alcuni lontano dai problemi quotidiani, lontano dalle esigenze di chi non ha redditi sicuri e risparmi a cui aggrapparsi. Un mondo di privilegiati su una torre d’avorio, insomma. Naturalmente la realtà è ben diversa. Anche perché sono pochi gli scrittori veramente privilegiati. Chi lo fa di mestiere sa che la realtà è ben più feroce.

Solidarietà tra lavoratori
Alberto Prunetti, uno degli scrittori che ha lanciato la letteratura working class in Italia, dice apertamente di essere molto preoccupato per il suo lavoro di traduttore e scrittore. “Mi chiedo se potrò pagare l’affitto tra qualche mese, come potrò sostenere la mia bambina. Si pensa che gli scrittori siano privilegiati, solo perché in passato molti privilegiati erano anche scrittori. Ma adesso che ci sono persone di estrazione sociale bassa che hanno messo le mani sulla cassetta degli attrezzi della scrittura, le cose sono più complesse”, racconta.

“La scrittura non ti fa fare nessuna ascesa sociale. Sono dieci gli scrittori che vivono solo dei loro diritti. Gli altri devono trovarsi altre collaborazioni nell’industria editoriale. E se questo settore va in recessione, se non hai rendite o un capitale economico e relazionale, allora il conto è salato. Se sei uno scrittore che viene dalla classe operaia, dovrai preoccuparti come qualsiasi altro lavoratore”.

Prunetti propone degli strumenti per quelli che definisce “tempi amari”: “Dobbiamo chiedere aiuti non in quanto scrittori o scrittrici, ma in quanto lavoratrici e lavoratori. Sostegno al reddito e all’affitto. Poi in quanto scrittori dovremmo chiedere sostegni alle traduzioni. La creazione di un istituto simile al Centro nazionale del libro, attivo in Francia. La possibilità di godere di un reddito di quarantena, come richiesto dagli attivisti che si occupano di tutti quei lavoratori che nonostante abbiano un impiego non riescono a guadagnare abbastanza per uscire dalla povertà. Soprattutto dobbiamo esprimere solidarietà agli altri lavoratori, se vogliamo riceverla”.

Corpi esposti
In un mondo come quello dell’editoria, colpito in pieno dalla crisi, c’è chi non rinuncia a riflettere e a guardare oltre le trame di questo presente distopico. Uno dei testi più interessanti in questo senso è quello che il 18 marzo Francesca Melandri ha pubblicato sul quotidiano francese Libération. Il titolo originale è Lettre aux français depuis leur futur (Lettera ai francesi dal loro futuro). L’articolo è stato poi ripreso dal quotidiano britannico The Guardian con il titolo A letter to the UK from Italy: this is what we know about your future, e infine tradotto in altre lingue, tra cui cinese e bengalese. Melandri dice una cosa semplice e chiara: “Vi scrivo dall’Italia, scrivo quindi dal vostro futuro. Noi siamo ora dove voi in Francia sarete tra pochi giorni. I grafici dell’epidemia ci mostrano allacciati in una danza parallela in cui noi siamo qualche passo avanti a voi nella linea del tempo”.

Un articolo di grande sensibilità, dove la quotidianità stravolta dal virus viene presentata nel suo alternarsi di alti e bassi, di fratture e silenzi, di canzoni sul balcone e depressione. Un vademecum che, raccontando cosa sta succedendo all’Italia, prepara psicologicamente chi all’estero sta per essere travolto dal contagio. E che anticipa le parole pronunciate alcuni giorni dopo da papa Francesco in una piazza San Pietro vuota: “Ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme”.

I drogati, gli immigrati senza documenti o semplicemente poveri, loro, non esistono più

“Abbiamo passato tanto tempo a illuderci che la classe fosse una questione di educazione, di cultura, di maggiore o minore cosmopolitismo, che significasse far parte di quelli che hanno viaggiato, che hanno avuto un’istruzione oppure no”, mi racconta Francesca Melandri. “In realtà il Covid-19 ha ribadito che appartenere a una certa classe significa far parte di gruppi diversi di persone, che possono contare su una maggiore o una minore tutela del corpo. E non parlo del corpo come metafora, ma del corpo reale, delle cellule e della materia che portiamo nel mondo”.

La parola “corpo” dà forma concreta all’evento che stiamo vivendo, spazza via ogni astrazione. “Una cosa che mi ha colpito nelle prime ore del lockdown in tutta Italia”, sostiene Melandri, “è che ci sono stati due grandi filoni di narrazione. La maggior parte delle persone si è chiesta come fare a pagare le bollette se non si può andare a lavorare. Ma anche: come fare a restare chiusi in quattro in una casa di quaranta metri quadrati? Come restarci con un marito che mi picchia? Sono domande che esplicitano le sofferenze del corpo”. Il secondo filone è riconducibile a “una classe più borghese, molto più presente nei mezzi di informazione, dove tantissimi pensatori hanno scritto che questo è un buon momento per fermarci, qualcosa di cui il capitalismo aveva bisogno”.

Melandri sottolinea la diversità delle due reazioni, dice di provare “molta comprensione per entrambe”, ma allo stesso tempo di sentire “uno stridore straordinario tra una classe di persone che evidentemente, nelle sue prime reazioni, mostra di non essere preoccupata per la sopravvivenza del proprio corpo. E un’altra che si chiede come farà il suo corpo a soddisfare i propri bisogni di base. Questo è stato chiaro nelle prime 24 ore dell’emergenza, l’ho trovato stupefacente”.

I dimenticati
Di dimensione corporea parla anche Djarah Kan, scrittrice, performer, cantautrice afroitaliana che ha abituato chi la segue a una rabbia graffiante e militante. Con parole amare dice che “i drogati, gli immigrati senza documenti o semplicemente poveri, loro, non esistono più, anche se continuano a vivere. Le loro esistenze non fanno più guadagnare punti percentuali a questo o quel partito. Non esistiamo più. La cosa interessante che emerge ora con più forza è che la questione non è mai stata il colore della pelle, quanto la classe sociale su cui quel colore si poggiava. Non si parla dei migranti perché non si vuole parlare di povertà, punto e basta. Adesso non siamo più un argomento di dibattito, una scusa per scatenare il tifo”.

Anche Alberto Prunetti parla di migranti. “Un pensiero”, dice, “va alle tante persone che lavorano nella sanità. In tv vediamo ogni giorno le stesse facce di primari e scienziati, perlopiù maschi bianchi, ma negli ospedali, nelle cliniche, nelle case di cura e negli ospizi lavorano come infermieri, ausiliari, addetti alle pulizie, persone che fanno parte di una nuova classe operaia, in cui hanno un ruolo molto forte donne e in particolare donne migranti. Sono loro che si prendono cura di noi e ci curano, rischiando la loro vita”.

Le disuguaglianze presenti nella società le pagano anche i bambini. Anche loro sono tra i dimenticati, come racconta bene l’antropologa e documentarista Rosa S., che sul blog di Wu Ming ha pubblicato un articolo dal titolo esemplificativo: “I bambini scomparsi per decreto. La sofferenza dei più piccoli nei giorni del coronavirus”.

I più piccoli
Di questa scomparsa è molto preoccupato anche lo scrittore per ragazzi Davide Morosinotto: “Un uomo o una donna adulti possono scendere al parco sotto casa a far fare la passeggiata al cane, ma non è previsto che un bambino porti il suo cane a fare la passeggiata. Loro sono davvero l’unica categoria sociale che è sigillata in casa senza poter fare niente”. In questa reclusione le differenze di classe colpiscono i più piccoli e le scuole che frequentano: “Quelle che hanno un po’ più di mezzi, quelle un po’ più ricche, quelle un po’ più fighe, stanno organizzando cose molto belle. Altre invece non ce la fanno”.

La disparità dipende anche dalla casa in cui ci si trova, dice Morosinotto: “Se sei figlio di persone che stanno bene, magari hai tanti libri a casa, il computer, abbonamenti a Disney+ e tutto quello che ti può servire a informarti o per parlare con i tuoi amici, è un conto. Se invece ti ritrovi in una casa dove il computer serve ai tuoi genitori perché sono in smart working e tu non hai niente altro, è una storia diversa. Un mio amico di Torino mi diceva che nella scuola superiore dove va suo figlio c’erano tre ragazze immigrate da poco in Italia e dall’inizio di questa tragedia sono completamente scomparse. Non rispondono alle email, lo fanno ogni tanto su WhatsApp. Questo ancora una volta dimostra che le classi sociali più svantaggiate pagano il vero prezzo di questa emergenza”.

Non è un caso che proprio gli scrittori per ragazzi stanno creando iniziative come quella di Botteghe aperte. In un momento in cui le librerie sono costrette a chiudere, autrici e autori rendono disponibili gratuitamente sulla piattaforma Wattpad i loro nuovi romanzi, coinvolgendo i piccoli lettori anche nella stesura del testo. Altra iniziativa è Voyages extraordinaires, dove scrittrici e scrittori per ragazzi ripubblicano i loro libri fuori catalogo al prezzo politico di due euro.

Altri scrittori, anche per adulti, stanno trasformando le loro bacheche su Facebook in spazi di discussione. Basti pensare all’attenzione al sociale di Helena Janeczek, che scrive dalla zona rossa; o a Davide Orecchio, che sta focalizzando il suo interesse sulla marginalità e il disagio psichico. È una presa di coscienza che sta crescendo un po’ in tutta Italia.

In una delle sue frasi più celebri, Gramsci diceva : “Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che ‘vivere vuol dire essere partigiani’”. Oggi più che mai agli scrittori e alle scrittrici è chiesto di esserlo, lottando contro le diseguaglianze che creano marginalità ed esclusione.

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