09 gennaio 2018 13:24

Non possiamo salutare con l’anno vecchio anche i nostri problemi, ma i festeggiamenti per l’anno nuovo ci permettono di far finta che sia così. Sono un gesto simbolico, come se seppellissimo una bara vuota. Ci concediamo perfino il lusso di nutrire qualche speranza, firmiamo un contratto con il futuro, fissiamo obiettivi, facciamo promesse e buoni propositi.

A Tripoli non si è avvertito il passaggio cerimoniale tra la fine di un ciclo e l’inizio di uno nuovo. È stata una notte come tante, una notte solitaria, in cui Tripoli sembrava ancora più triste. Non abbiamo spesso occasioni per far festa. L’ultima mi è capitata mesi fa, e l’ho annullata, poiché paradossalmente si trattava di una festa di addio.

Detesto i lunghi addii, e le feste di addio sono il modo più lungo per salutarsi. E poi non considero l’addio alle persone che amo un’occasione che merita di essere festeggiata. Per questo, qualche giorno prima del mio rientro a Tripoli, sono andato nella redazione di Internazionale a scusarmi perché avevo chiesto di annullare una festa organizzata per salutarmi. A voler essere davvero sinceri, temevo di commuovermi troppo. Non volevo correre il rischio di piangere, poiché il primo articolo del codice universale non scritto dei maschi dice che gli uomini possono piangere in pubblico solo alle partite di calcio. Però mi hanno fatto piangere lo stesso.

È successo quando stavo per lasciare l’ufficio. Mi hanno sorpreso con un regalo. In quel momento ho scoperto uno dei vantaggi di essere amico di grandi giornalisti: useranno le loro competenze per trovare il regalo giusto per te. Ero intrappolato in un’imboscata emotiva di primo livello.

Nessuno che non sia nato per il giornalismo potrebbe resistere in una professione così incomprensibile e vorace

Se avrete la fortuna di visitare la loro sede, la prima cosa che noterete è il campanello. C’è un piccolo adesivo blu con scritto “Internazionale”: dopo aver suonato vi sentirete come se foste sul punto di sfogliare un numero speciale della rivista.

Una volta entrati, costeggiando le pareti colorate comincerete a rispondere con un sorriso ai volti sorridenti sulla vostra destra. I sorrisi sono davvero contagiosi in queste stanze, e non potrete non ricambiarli. Sì, in effetti sono simpatici, ma non stanno in fila solo per salutarvi: fissano la parete alle vostre spalle, dove sono appese le pagine del prossimo numero della rivista. Le stanno passando in rassegna prima dell’approvazione finale.

Gabriel García Márquez definiva quello del giornalista il mestiere più bello del mondo. Ha scritto: “Nessuno che non sia nato per il giornalismo e non sia pronto a morire per esso potrebbe resistere in una professione così incomprensibile e vorace, il cui lavoro finisce dopo ogni notizia, come se fosse per sempre, e non concede un attimo di pace fin quando non ricomincia, con più entusiasmo che mai, il minuto dopo”.

Mentre li guardavo lavorare, mi sono ricordato le parole di qualcun altro: “Questo mestiere fa sentire soli”. Spiegano perfettamente il prezzo di “vivere per questo e questo soltanto”. Il giornalismo condivide alcuni aspetti con altri mestieri e ossessioni come la scrittura, la pittura, la fotografia e la regia. Tutti sono caratterizzati da isolamento e solitudine, un omaggio necessario al dio della creatività. Ci sono anche delle differenze. La più importante è che il giornalismo non è una caccia selvaggia alla bellezza ma alla verità, e bellezza e verità non sempre vanno a braccetto. Ecco perché il lavoro del giornalista può essere ancora più solitario.

Punto e a capo
È strano: un momento ti senti connesso, aperto, ispirato e consapevole di tutto, subito dopo sei sconnesso e sparisci. Mentre lavori ti innamori di quel momento, di ciò che stai facendo. Gli concedi tutto il tuo amore e la tua attenzione, per poi abbandonarlo quando hai finito. È un amore speciale, con cui devi rompere due volte: una volta quando hai finito il tuo lavoro e un’altra, definitiva, quando lo pubblichi. E a quel punto ricominci da capo.

“Questo mestiere fa sentire soli”, sono le parole che Alessandra Beltrame mi ha detto raccontandomi del film che stava realizzando. Sta girando con una 8mm e lo sta facendo da sola. Io e Alessandra ci siamo conosciuti a Bergamo. Oltre a fare film e sperimentare con la musica, di giorno lavora in un laboratorio specializzato nel recupero e nella valorizzazione di filmati provenienti da archivi familiari, con l’obiettivo di trasferirli in formato digitale. Trova, restaura e raccoglie questi vecchi tesori.

È riuscita a recuperare vecchi filmati provenienti dalla Libia, da Tripoli in particolare. Quando me l’ha detto, ho voluto vederli subito. Vedendoli mi sono sentito sopraffatto, provavo nostalgia per un’epoca che non ho mai vissuto. Sto lavorando a un progetto sullo stesso argomento, leggo e guardo molti materiali, ma non avrei mai pensato che la più bella cartolina da Tripoli mi stesse aspettando a Bergamo. Lei era felice, soprattutto quando si è resa conto di quanto mi fosse piaciuta quella piccola proiezione privata: le sono stato grato, perché so quanto le fosse costato.

Questo amore speciale per il proprio lavoro l’ho visto anche negli occhi di alcuni dei giornalisti e dei fotoreporter che hanno lavorato in Libia. Continuano a tornare qui, in un paese molto ostile nei loro confronti, in cui è stata creata una sorta di “cortina di ferro” in versione libica, un sistema per censurare l’informazione e controllare i giornalisti. Poiché non possono intimidire i giornalisti stranieri con gli stessi mezzi utilizzati contro quelli locali, provano a controllarli per altre vie.

Cercano di limitare ciò che possono vedere, i luoghi e i momenti in cui andare, e questo prima ancora che arrivino nel paese, quando chiedono il visto. La richiesta di visto per giornalisti deve essere vagliata dal dipartimento per la stampa estera, e ci vuole molto tempo prima che questo ufficio decida chi può entrare nel paese e chi no.

Una volta arrivati, devono andare nell’ufficio per ottenere il permesso per lavorare, e anche con quel permesso a volte può capitare loro di essere arrestati per qualche ora se incrociano la milizia sbagliata nel giorno sbagliato. Sono da soli, visto che spesso le loro ambasciate non muoiono dalla voglia di aiutarli. Ci sono buone possibilità che i mediatori e i traduttori che lavorano con loro riferiscano i loro spostamenti al dipartimento. I principali alberghi in cui alloggiano, come il Radisson Blue Hotel o l’Haroon, pullulano di funzionari dello stesso dipartimento.

Eppure niente di tutto ciò li ha fermati, riescono sempre a trovare un modo. Questo lo so per certo, visto che di recente hanno sostituito il capo del dipartimento per la stampa estera Khalid Farhat e sono diventati ancora più rigidi. Svolgere alcuni lavori significa trascorrere molte ore da soli, lontano da amici e familiari. Giorni lunghi e notti ancora più lunghe. È la prima cosa a cui pensi prima di andare a dormire e la prima a cui pensi quando ti svegli il giorno dopo. È un amore speciale, ma quando il lavoro è fatto bene, la ricompensa è enorme.

E poi, uno dei vantaggi di essere amico di grandi giornalisti è che useranno le loro competenze per trovare il regalo giusto per te. Dal mio rientro a Tripoli ho sempre tenuto con me il loro regalo, mi è stato utilissimo e di grande compagnia, ma questa è un’altra storia.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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