13 febbraio 2013 16:11

Più invecchio, più il formato documentario mi piace. Ho bisogno di storie vere e ieri, al festival del cinema di Berlino, ho visto un documentario che racconta una storia terribilmente vera.

In realtà, Narco cultura presenta due storie. La prima è quella di Richi, un sottufficiale della polizia scientifica di Ciudad Juárez, la città messicana di 1,3 milioni di abitanti in cui, dall’inizio della guerra spietata esplosa tra due cartelli della droga, nel 2008, il numero di omicidi è aumentato da 500 all’anno a più di tremila. Ciudad Juárez forma praticamente un’unica città con El Paso, negli Stati Uniti, da cui è divisa dal Rio Grande e qualche recinto. El Paso, 660mila abitanti circa, ha uno dei tassi di omicidi più bassi degli Stati Uniti: poco più di dieci all’anno.

Il lavoro di Richi e dei suoi colleghi dovrebbe consistere, come nella migliore tradizione televisiva del

crime scene investigator (Csi), nell’analisi attenta di ogni traccia e dettaglio utili a risalire ai colpevoli. Ma con sette-otto omicidi al giorno e poca volontà politica di toccare i vertici dei cartelli, che usano le loro risorse illimitate anche per insabbiare e imporre il silenzio, Richi è diventato una specie di netturbino specializzato in cadaveri. Non sempre sono cadaveri interi: a Ciudad Juárez, per mandare dei messaggi ai rivali, i corpi sono spesso bruciati, decapitati, tagliati a pezzi e sparsi in giro. Si vede che Richi crede nella giustizia, che una volta era fiero del suo lavoro; ma ora è avvilito e impaurito dalla discesa agli inferi che vede intorno a sè. Anche perché i cartelli non esitano a uccidere i poliziotti: nel reparto di Richi, composto da una trentina di persone, ogni anno si celebra il funerale almeno di un collega.

La seconda storia raccontata da Narco cultura è quella di Edgar, un giovane musicista di Los Angeles. Avete presente il gangsta rap? Il narcocorrido è l’equivalente latino, non tanto come musica (una specie di polka messicana) quanto nelle parole, che esaltano la violenza e la cultura macho dei signori della droga. Ma a differenza, per esempio, dei canti della malavita in Italia, il narcocorrido spopola tra i giovani, sia nei locali latinos degli Stati Uniti, sia dall’altra parte della frontiera, in Messico. Edgar va in scena, bazooka in mano, cantando “Siamo pazzi… assetati di sangue… ci piace uccidere” a un pubblico adorante che sa tutte le parole a memoria.

Poi, di nuovo a Ciudad Juárez, vediamo un video messo online dal cartello Sinaloa in cui un membro di un cartello nemico viene decapitato vivo, con un’ascia.

Narco cultura non è un dazebao in stile Michael Moore: il regista non commenta, lascia a noi il compito di unire le due storie. È un documentario fortissimo. Sono immagini che ti segnano in appena novanta minuti. E a quel punto, capisci quanto dev’essere difficile, per uno che le vede tutti i giorni, non trasformarsi in una bestia.

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