26 giugno 2016 11:12

Il momento peggiore è arrivato quando all’alba del 24 giugno Nigel Farage, il leader del partito antieuropeista Ukip, ha detto “abbiamo vinto senza sparare un colpo”.

Invece un colpo è stato sparato. Più colpi. Quelli che, insieme a una pioggia di coltellate, hanno ucciso la deputata laburista Jo Cox, convinta sostenitrice della campagna per il remain (restare), il 16 giugno scorso. Sembra che l’aguzzino di Cox, Thomas Mair, soffrisse di problemi psicologici ma aveva anche avuto contatti con gruppi neonazisti, e in ogni caso crimini del genere non maturano nel nulla, si nutrono di veleni morali e politici.

La campagna per la Brexit è stata condotta in un clima avvelenato, di bugie, odio e si è caratterizzata per un razzismo appena nascosto (a volte neanche) da slogan politicamente corretti, come quello secondo il quale il Regno Unito doveva “riprendere il controllo sull’immigrazione”. La battuta infelice di Farage sulla rivoluzione senza spargimento di sangue riassume tutta l’incoscienza di una rivolta popolare e populista che ha giocato con il futuro del mio paese come fosse una fiche da puntare alla roulette.

Già sono arrivati i primi segnali dell’entità di questa incoscienza. Verso le 4.30 del mattino del 24 giugno, uno dei principali promotori della campagna per il leave (lasciare), Liam Fox, si è meravigliato del crollo della sterlina e della turbolenza che si stava già registrando nei mercati finanziari, chiedendosi: “Perché non si sono preparati meglio?”. Come se il capitalismo selvaggio, sistema appoggiato dal suo stesso partito conservatore, avesse potuto, in questo solo caso, mostrarsi ragionevole, lungimirante e maturo. Poi c’è la testardaggine degli elettori di regioni depresse come la Cornovaglia che, anche se ogni anno riceve circa cento milioni di euro in sovvenzioni europee senza le quali sarebbe ancora più disperata, ha votato in blocco per il divorzio da Bruxelles.

Mi sento profondamente smarrito davanti a ciò che considero un suicidio collettivo

Da cittadino britannico residente in Italia dal 1984 mi sento profondamente smarrito davanti a ciò che considero un suicidio collettivo, che deriva dalla voglia di punire quelle entità nebulose (Europa, i banchieri, gli immigrati, la burocrazia, i politici corrotti) ritenuti responsabili del disagio di molti di quelli che hanno votato leave. Un disagio finanziario, certo, ma anche psico-storico, legato alla nostalgia per un tempo (forse mitico) quando l’orgoglio nazionale e imperiale si poteva esprimere in modo sano e semplice. Perciò, come nel caso di Trump negli Stati Uniti, si è fatta consapevolmente la cosa sbagliata, più o meno infischiandosene delle conseguenze, per il semplice gusto di dare una lezione a “loro”. E questa è una sindrome conosciuta anche in Italia.

È tutto il giorno che scambio messaggi con amici britannici attraverso i social network. E sono tutti sotto shock come me. Perché è chiaro che viviamo in delle bolle sociali e culturali che tendiamo a riprodurre in rete. In particolare mi ha colpito il post di un’amica inglese che vive a Barcellona. Scrive: “Qualcuno di voi mi sa trovare un lato positivo in tutto questo? Qualsiasi cosa?”.

Le risposte arrivate finora sono piccole cose consolatorie, come: “Il governo non è tenuto legalmente a tener conto dei risultati del referendum”. È vero, ma così si rischia la guerra civile. Dunque provo a rispondere io, forse anche per provare a uscire dalla depressione post-voto, per trovare qualche spiraglio.

1. Democrazia
È stata un’importante dimostrazione di democrazia. L’affluenza del 72,16 per cento è la più alta in una chiamata alle urne su scala nazionale nel Regno Unito dalle elezioni politiche del 1992.
Ma è anche la prova di come la demagogia, la disinformazione e le manipolazioni della stampa popolare possono dirottare i valori della democrazia. Come ha scritto un mio amico gay di Los Angeles stamattina: “Cosa succederebbe negli Stati Uniti se ci fosse un referendum sui matrimoni gay? O sulla possibilità di lasciar entrare liberamente i musulmani negli Stati Uniti?”.

2. Cameron
David Cameron ha già annunciato le dimissioni. Se ne va, dunque, l’uomo che più di tutti è responsabile di questa débacle, un primo ministro debole che è arrivato al potere con lo slogan “Let’s fix broken Britain” (Aggiustiamo questa Gran Bretagna rotta), finendo però di romperla, forse definitivamente. Un uomo colpevole non solo di aver giudicato male l’umore del paese che stava governando, ma di aver contribuito a plasmare quell’umore nazionalista, con le sue uscite contro la minaccia dell’immigrazione comunitaria e le manieri forti che ha sempre sfoggiato nei suoi rapporti con Bruxelles.
Ma la sua uscita ha spianato la strada per l’ascesa di Boris Johnson al trono conservatore, e forse alla guida del paese. Un demagogo, colto ma pericoloso, che ha puntato tutta la sua carriera politica sul cavallo Brexit, e ha vinto.

3. Scozia
Dopo anni di incertezza, quasi sicuramente la questione scozzese si risolverà. Il paese che ha votato in massa per il remain, nell’arco di non più di cinque anni, potrebbe fare esattamente questo. Cioè rimanere (o ridiventare) parte dell’Unione europea, anche se bisognerà prima superare l’ostacolo del probabile veto della Spagna, che vuole evitare che si crei un precedente utile alla causa degli indipendentisti catalani.
Ma sarà quasi impossibile farlo senza lasciare il Regno Unito, che uscirebbe ulteriormente impoverito da una scissione. Materialmente e moralmente. Nicola Sturgeon, la first minister scozzese del partito indipendentista Scottish national party, ha già annunciato che l’opzione per un secondo referendum sull’indipendenza è sul tavolo, perché trascinare la Scozia fuori dall’Europa contro la sua volontà rappresenta “un significativo cambiamento delle circostanze”. Molti di quelli che avevano votato No nel primo referendum nel 2014 ci staranno già ripensando. Un mio amico scozzese mi scrive: “Oggi sono attirato dall’idea di una Scozia indipendente e dentro la Ue, anche per scaricare i razzisti e i bigotti della ‘Little England’, che abbiamo scoperto essere molto più numerosi di quanto pensassimo”.

4. Vacanze
Con il crollo della sterlina, e il ritorno del Regno Unito in recessione, le vacanze oltremanica torneranno a essere abbordabili.
Ma ci vorrà il visto, i prezzi dei voli sono destinati a salire per il saltare degli accordi comunitari, idem per il prezzo del roaming telefonico. E guai a parlare “straniero” in certe parti di un paese che sta virando verso la xenofobia.

5. Rivoluzione
Facendo una scelta non condivisa da gran parte dei loro figli e nipoti, gli over 40 britannici (e soprattutto inglesi) hanno creato le condizioni per una rivoluzione generazionale che si esprimerà nei prossimi vent’anni con maggior forza, proprio a causa di questo tradimento.
Ma facendo una scelta non condivisa da gran parte dei loro figli e nipoti, gli over 40 britannici (e soprattutto inglesi) hanno reso più difficile quel libero scambio culturale, intellettuale e lavorativo di cui si è nutrita la generazione Erasmus. Rischiando, forse, di farli diventare come loro.

Alla fine
Alla fine devo arrendermi. C’è un lato positivo in tutto questo? Non credo. Se non che il referendum ha messo a nudo le profonde spaccature nella società britannica. E questo, volendo essere molto, ma molto ottimisti, potrebbe rappresentare un piccolo primo passo. Queste tensioni hanno covato sotto la superficie, rimanendo relativamente ininfluenti sul destino politico ed economico del paese. Ora sono diventate delle ferite e bisogna rimarginarle. Ma per essere onesti, con il caos che si prospetta nei prossimi mesi (o anni), non ho tante speranze che ciò possa davvero accadere.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it