10 luglio 2019 12:44

Il termine burnout risale al 1974, ma a giudicare dai mezzi di comunicazione e da molte persone che conosco, sembra sia ufficialmente la diagnosi dell’anno. Insomma, quasi ufficialmente: un paio di mesi fa, a Ginevra, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha annunciato per la prima volta che si poteva considerare una malattia, anche se, il giorno dopo, è saltato fuori che non era proprio così (cerchiamo di essere buoni con i funzionari dell’Oms, probabilmente sono molto stanchi anche loro). In un saggio che ha circolato parecchio, la giornalista di Buzzfeed Anne Helen Petersen ha descritto il suo burnout, e la paralisi a esso associata, che non le permette di fare neanche le cose più semplici.

Per i millennials, la generazione nata negli anni ottanta e novanta, questo tipo di esaurimento non è una crisi temporanea, dice, “è la nostra temperatura normale”. E per risolverla non basta l’autoaiuto: “Non si guarisce con una vacanza né con i libri da colorare per adulti né mettendosi a fare dolci per placare l’ansia, il che spiega perché molti millennial si identificano sempre di più con il socialismo democratico e si iscrivono ai sindacati: stiamo cominciando a capire che cosa ci affligge, e non è una cosa che possiamo guarire con un trattamento all’ossigeno per il viso o una scrivania con sotto il tapis roulant”.

Sono d’accordo, quindi esito un po’ a proporre una tecnica di autoaiuto. Ma mentre cerchiamo di cambiare la società, dobbiamo comunque occuparci dei nostri impegni quotidiani, e c’è una tecnica che ultimamente ho trovato più utile di qualsiasi altra, nonché più adatta a questa nostra epoca in cui ci sentiamo sempre esausti e sopraffatti dagli impegni: stabilire un limite ai lavori in corso.

Basta fissare un limite massimo al numero di cose che si intendono fare contemporaneamente, diciamo tre

È un concetto semplice che si ispira al sistema giapponese di programmazione industriale chiamato kanban, adattato da Jim Benson e Tonianne DeMaria Barry nel loro libro Personal kanban. Basta fissare un limite massimo al numero di cose che si intendono fare contemporaneamente, diciamo tre. E non se ne aggiunge nessuna fino a quando non se n’è finita almeno una. Quando ne rimangono solo due, se ne può introdurre un’altra. E così via. Per visualizzare questa tecnica si attaccano post-it su una lavagna bianca, organizzati in colonne: ogni compito passa dalla colonna indicata come “da fare” a quella “fatto”. Se il vostro limite è tre, non ci dovrebbero mai essere più di tre foglietti nella colonna “da fare” (potete aggiungere una colonna “in attesa”, dove mettere le cose che potreste rifilare a qualcun altro).

Gli effetti di questo sistema sono eccezionali. Riducendo le cose da fare, prendiamo coscienza del fatto che le nostre capacità non sono illimitate, perciò la smania controproducente di cominciare quindici attività contemporaneamente si placa naturalmente. Senza neanche accorgercene, ci troviamo a dividere i nostri progetti in tronconi fattibili (anche perché se uno di questi è “scrivere un libro” o “trovare un nuovo lavoro”, possiamo rimanere bloccati per mesi). Ma soprattutto, questo modo di lavorare infonde un profondo senso di controllo. Benson e Barry scrivono: “In questo modo, portare a termine un compito prima di cominciarne un altro diventa una dipendenza, uno schema di comportamento e alla fine un’abitudine”.

L’obiezione più ovvia è che siamo troppo sotto pressione per limitare a tre le cose da fare. Ma questo è un errore. Non riusciamo già a fare più di un numero limitato di cose alla volta. Se il mondo ci chiede di farne cento, la sua è una richiesta impossibile. L’unica cosa che possiamo fare è scegliere, più o meno coscientemente, quali dovranno aspettare. Per essere chiari, niente di tutto questo è la soluzione magica al burnout, anzi è un rifiuto delle soluzioni magiche, un modo liberatorio di accettare la realtà per quello che è.

Da vedere

Jim Benson spiega in modo semplice come affrontare il sovraccarico di impegni – servono tanti foglietti adesivi e una parete libera – in una serie di video sul sito Personal kanban.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian.

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