10 dicembre 2019 13:03

Ci sono buone probabilità che in questi giorni siate preoccupati per il futuro. Naturalmente, adesso lo sarete a causa delle prossime elezioni e della Brexit, ma questo non è l’unico motivo possibile: molti di noi sono sempre preoccupati per quello che potrebbe succedere in futuro, in qualche campo, e lo saremmo anche se la politica improvvisamente cominciasse ad andare come vogliamo.

Perciò questo è un momento buono quanto qualsiasi altro per ricordare che strana emozione è l’ansia. Per quanto le cose possano andare male, una volta prese tutte le precauzioni in nostro potere, preoccuparci è abbastanza inutile. Nella preistoria, quando le minacce erano fisiche e immediate, l’ansia poteva innescare una reazione di difesa che permetteva di sottrarsi al pericolo.

Ma per la maggior parte delle paure moderne – che siano di tipo politico o ambientale, collegate al nostro lavoro, al nostro rapporto di coppia o ai figli – non è così. Eppure l’ansia aleggia sempre nell’aria e si autoalimenta. Sinceramente, sarebbe quasi preferibile dover correre più veloci di una tigre dai denti a sciabola una settimana sì e una no.

Come siamo arrivati qui
Pensiamo un attimo all’asimmetria tra quello che proviamo nei confronti del futuro e del passato. Se guardiamo in avanti, l’imprevedibilità della vita ci esaspera, e preoccupandoci abbiamo la sensazione, anche se inconscia, che in questo modo avremo più possibilità di controllare il futuro (oppure, sempre nella stessa speranza, tendiamo a essere eccessivamente cauti: “Papà dice che sarebbe meglio arrivare all’aeroporto 14 ore prima”, si legge in un titolo del sito satirico americano The Onion, evidentemente ispirato alla mia infanzia).

Se guardiamo indietro, invece – e so che rischio di essere accusato di fare uso di sostanze derivate dalla cannabis – non è strano che non siamo turbati dall’imprevedibile intreccio di coincidenze che ci ha portati fin qui?

Innumerevoli coincidenze e cieche forze storiche hanno fatto di noi quello che siamo oggi

“A volte mi sveglio con una sensazione di stupore infantile: perché io sono io?” si chiedeva Simone de Beauvoir nel suo saggio autobiografico A conti fatti. “Quello che mi sorprende… è il fatto di trovarmi qui, in questo momento, immersa in questa vita e non in un’altra… La penetrazione di quel particolare ovulo da parte di quel particolare spermatozoo, con tutte le altre conseguenze dell’incontro tra i miei genitori e prima ancora della loro nascita e della nascita di tutti i loro antenati, aveva una probabilità su centinaia di milioni di verificarsi”.

Non è strano se ci interessa di più l’imprevedibilità del futuro; il passato, in fondo, è acqua passata. È strano invece quanta energia investiamo preoccupandoci per il futuro mentre dovremmo sapere che non possiamo controllarlo, né conoscerlo in anticipo, visto quanto poco siamo riusciti a farlo in passato. Innumerevoli coincidenze e cieche forze storiche hanno fatto di noi quello che siamo oggi. Non sarebbe ragionevole presupporre che avranno un ruolo preponderante anche in futuro? E questo non conferma il fatto che preoccuparcene non serve a nulla?

Non intendo dire che dovremmo essere così razionali da bandire del tutto l’ansia. Ma prendere atto della realtà è liberatorio: quando ci preoccupiamo, quello che cerchiamo è una rassicurazione, ma certo non ce la darà il futuro, per il semplice motivo che non è ancora accaduto. Senza dubbio, nel presente vale sempre la pena fare qualcosa per aumentare le probabilità che in futuro le cose vadano bene. Ma la nostra influenza non può andare oltre. Nel senso più profondo, il futuro in sé non è affar nostro.

Consigli di lettura
Nel suo libro Back to sanity, lo psicologo Steve Taylor sostiene che la tendenza a “vivere altrove”, e quindi anche nel futuro, è un disturbo mentale dal quale si può guarire.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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