15 maggio 2018 13:42

Da quando la giustizia spagnola ha reso pubblica la decisione di prosciogliere i cinque uomini della manada (il branco, così si facevano chiamare) dall’accusa di stupro collettivo, nel 2016, di una giovane diciottenne durante la festa di San Firmino a Pamplona, in molte città spagnole sono state organizzate manifestazioni di protesta e d’indignazione per questa sentenza.

Pur riconoscendo che la giovane donna è stata denudata contro la sua volontà in uno spazio angusto, senza uscita, e accerchiata da José Ángel Prenda, Jesús Escudero, Ángel Boza, dal militare Alfonso Jesús Cabezuelo e dal poliziotto Antonio Manuel Guerrero, tutti “più grandi di lei e di costituzione robusta”, la sentenza nega che ci siano state intimidazione e violenza, classificando quindi il reato come “abuso sessuale” e non come stupro e riducendo la pena da 24 a nove anni di prigione.

Mentre il movimento femminista sfoga la sua collera, il Parlamento europeo discute, su domanda di Podemos e nonostante l’opposizione del Partito popolare, della necessità di applicare in Spagna le convenzioni giuridiche internazionali relative alla violenza sessuale.

Sul corpo delle donne
Il cittadino si domanda allora stupefatto: com’è possibile che simili accordi internazionali non siano già applicati in Spagna? Secondo quale protocollo sono giudicati in questo paese europeo i reati di violenza sessuale?

Il conflitto attuale che oppone i corpi violentati o potenzialmente violentabili ai loro giudici ci obbliga a riconoscere che lo stato spagnolo continua a essere l’esempio di una sovrapposizione di almeno tre regimi giudiziari, tre modelli di verità e di produzione della giustizia discordanti tra loro: su una struttura giuridica franchista e patriarcale sono stati innestati alcuni protocolli democratici, il tutto è poi stato cosparso di metodi di verifica postmoderni, resi possibili dalle tecniche digitali.

Nelle ultime ore non ho fatto altro che leggere le inaudite 371 pagine di motivazioni della sentenza, pubblicate, come è inevitabile in un regime giuridico postfranchista digitale, in pdf sulla pagina internet di un grande giornale.

La sentenza, la cui lettura consiglio solo agli individui dotati di stomaco resistente e di una solida rete di sostegno psicologico, potrebbe essere letta come una storia di Stephen King, in attesa di una postfazione di Virginie Despentes.

In questo strano documento legale si può leggere che, mentre la querelante si trovava in stato di shock, “è stata penetrata oralmente da tutti gli accusati, vaginalmente da Alfonso Jesus Cabezuelo e José Ángel Prenda, quest’ultimo a due riprese, e da Jésus Escudero Dominguez, che l’ha penetrata una terza volta per via anale, gli ultimi due eiaculando senza usare preservativo”. Durante lo svolgimento dei fatti, due degli uomini coinvolti hanno utilizzato il loro telefono per fare dei video e scattare delle foto, poi diffuse sui social network. La notte stessa dei fatti, uno degli accusati ha inviato vari messaggi WhatsApp ai gruppi “Manada” e “Lussuriosi San Firmino” nei quali scrive: “Ci scopiamo una tipa in cinque”, “impossibile da raccontare, troppo incredibile”, “una troia sfondata”, “abbiamo il video”, “in cinque mentre ci scopiamo una puttana, una cosa assurda”.

Di fronte a questi fatti, il giudice Ricardo González ha deciso di prosciogliere i cinque dall’accusa di aggressione sessuale e di stupro, sostenendo che nei filmati effettuati dagli accusati, osserva solamente cinque uomini e una donna che praticano “atti sessuali in un’atmosfera di festa e di divertimento”. Il lettore si domanda se, quando caratterizza uno stupro come una festa, il magistrato si riferisca al modo in cui gli uomini sono stati storicamente autorizzati a rallegrarsi della pratica collettiva della violenza sessuale. La sentenza comprende una teoria del genere, un’estetica della pornografia e un trattato sul piacere sessuale dal punto di vista patriarcale.

Le immagini, assicura il magistrato, hanno “certamente un contenuto disturbante”, ma ritiene che si tratti di “una relazione sessuale cruda e disinibita, praticata tra cinque uomini e una donna, in un ambiente sordido, miserabile e inospitale, nella quale nessuno di loro (compresa la donna) dà alcuna prova di pudore, né nell’esposizione del proprio corpo o dei propri organi genitali, né nei movimenti, né nelle posture o negli atteggiamenti adottati”.

Il magistrato si aspettava forse che le persone coinvolte nello stupro, gli aggressori e la vittima, preparassero lo scenario e si muovessero con modestia ed eleganza? “Non ravviso”, dice il giudice, “in nessuno dei filmati o delle fotografie segni di violenza, di forza o di rudezza da parte degli uomini nei confronti della donna. Non posso ravvisare nei loro gesti, o nelle loro parole, tra quelli che ho potuto osservare, né scherno, né disprezzo, né umiliazione, né sbruffoneria di alcun tipo”.

Ma qual è la relazione tra scherno, disprezzo, umiliazione, sbruffoneria e l’imposizione violenta di un atto sessuale?

La sentenza diventa così un nuovo rituale pubblico nel quale il sistema giudiziario ripete la violazione e ne trae godimento

La crisi generata da questa storia è il risultato del conflitto tra le convenzioni sociali che regolano le istituzioni giudiziarie e l’attuale processo di emancipazione femminista. Il grido del “non ci rappresentate” rivolto un tempo ai politici si allarga ormai ai vari livelli delle istituzioni giudiziarie. Nel regime giuridico postfranchista le tecniche di visibilità e d’accesso pubblico alle prove fornite dagli strumenti di registrazione e di diffusione dell’immagine, dei social network e di internet non portano a una maggiore democratizzazione dei processi giudiziari, ma anzi accrescono il godimento patriarcale.

L’inconscio giuridico patriarcale si nutre di un vortice di messaggi, di tweet, di catene di hashtag e di relazioni su Facebook. I magistrati osservano le prove come se guardassero un porno e si preoccupano solo di godere di più. Le immagini registrate durante l’aggressione e i messaggi espliciti diffusi nei social network non servono da prova incriminante, ma da supporto narrativo che conferma la misoginia del sistema giudiziario. La sentenza diventa così un nuovo rituale pubblico nel quale il sistema giudiziario ripete la violazione e ne trae godimento (una volta di più).

Ci sono quindi state due violenze rituali. Una ha avuto luogo in un portone di una via di Pamplona il 7 luglio 2016. La seconda ha avuto luogo in un’aula di tribunale dello stato spagnolo, e a essa hanno partecipato dei giudici e degli avvocati. Il primo rituale cercava di ottenere un supplemento di piacere e di sovranità maschile, ed era esercitato da cinque uomini, con violenza, su una persona sola e disarmata. Il secondo rituale mira a proteggere il diritto degli uomini a usare legittimamente la violenza per ottenere dei servizi sessuali.

Se la prima violazione è di tipo privato, la seconda è ancora più grave poiché è legittimata dall’istituzione giudiziaria. La decisione della corte è una penetrazione non consensuale. Così facendo i giudici inseriscono un pene in ciascuna delle nostre bocche contro la nostra volontà. E le dichiarazioni del magistrato funzionano da eiaculazione medico-giuridica nei confronti dei nostri diritti.

Ancora una volta, la risposta non può essere riformista, ma rivoluzionaria: non si tratta solo di modificare questa decisione del giudice, ma di depatriarcalizzare le istituzioni giudiziarie modificando la loro politica dei generi e le loro tecniche di produzioni della verità.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Libération.

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