10 settembre 2021 16:55

Pedro Almódovar, Jane Campion, Paul Schrader, Ridley Scott, Pablo Larraín, Denis Villeneuve, Maggie Gyllenhaal. Ecco la lunga lista di alcuni grandi nomi di cui non sono riuscito a vedere i film alla Mostra del cinema. Per fortuna siamo sicuri che i loro film circoleranno (alcuni già circolano) in lungo e in largo. Quindi ci torneremo.

Invece nel giro di pochi giorni ho visto tre film (due a Venezia, uno prima) di provenienza russo-ucraina in cui si parla, tra le altre cose, di tortura, che ci viene mostrata in varie declinazioni. Quello non veneziano è Dau. Natasha, frutto della gigantesca “installazione” del regista russo Ilja Chržanovskij (vedi anche Internazionale 1425). Il film si svolge in un grande istituto di ricerca di epoca sovietica (ricostruito in Ucraina) e la protagonista, che gestisce la mensa, fa la conoscenza del nuovo addetto alla sicurezza in una sessione di tortura “leggera”, in cui l’aguzzino sembra quasi volersi presentare ed “entrare in confidenza” con la sua vittima.

Poi (e qui siamo già a Venezia) ci sono le torture a cui è sottoposto il dottor Serhiy, un chirurgo ucraino che partecipa al conflitto russo-ucraino nel film Reflection di Valentyn Vasjanovyč. Al fronte, la tortura, sistematica, brutale e spesso letale, è un’arma e come tale viene usata. Una volta tornato a casa, il medico vive un altro tipo di tormento: quello per cui il conforto delle persone care è un promemoria costante della precarietà dell’esistenza.


Infine, in Captain Volkonogov escaped, di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov, la tortura è una fase, un passaggio nella burocrazia dello sterminio nella Russia di Stalin: si individua qualcuno che forse potrebbe creare dei problemi, lo si accusa di qualcosa, lo si fa confessare con la tortura e si procede all’esecuzione. Un meccanismo oliato affidato a prestanti agenti della sicurezza che coltivano il culto del corpo e si sostengono con un sano cameratismo. Peccato che la loro coscienza ogni tanto riemerge. E il capitano Fëdor Volkonogov ci casca.

Spinto dal fantasma di un collega, va a trovare i familiari di alcune vittime del suo ufficio per ottenere il perdono di almeno uno di loro ed evitare la dannazione eterna. Durante la ricerca in giro per Mosca il capitano, un tipo tosto, è braccato dagli ex colleghi, poco inclini ad accettare defezioni. Il campionario umano con cui deve confrontarsi non lascia dubbi sulle ferite profonde e inguaribili che quel particolare tipo di burocrazia ha inflitto alla società. Alla fine, il perdono diventa quasi irrilevante. Chissà se arriverà nelle nostre sale quella che i registi hanno definito “una parabola post-moderna con elementi di thriller mistico”?


Fuorilegge della ragione
Speriamo invece che arrivi nelle nostre sale anche il bellissimo L’événement di Audrey Diwan. Nella Francia del 1963 la giovane Anne, brillante studente di letteratura, decide di violare la legge. Non per arricchirsi, per “svoltare” o per provare il brivido della trasgressione. Ma per abortire. È rimasta incinta, ma l’aborto è illegale e i medici a cui si rivolge non vogliono neanche sentirlo nominare. Tratto da L’evento, romanzo di Annie Ernaux pubblicato in Italia da L’Orma, il film è crudo, sobrio e ci porta a stretto contatto con Anne, interpretata da un’intensa Annamaria Vartolomei, 22 anni, che sicuramente rincontreremo in futuro. In ogni caso sarebbe bello poter vedere L’événement al cinema in un momento in cui molte conquiste della ragione vengono messe in discussione in nome della paura, dell’insicurezza e della superstizione.

Invece sarà sicuramente distribuito (da I Wonder Pictures) il secondo dei tre film francesi in concorso, Illusions perdues di Xavier Giannoli (il terzo è Un autre monde di Stéphane Brizé). Il film di Giannoli è una trasposizione classica del romanzo di Balzac, abbastanza fedele tranne qualche piccola libertà presa per rendere più accattivante qualche personaggio. In particolare quello di Louise, interpretato da Cécile de France (che dopo il primo esilarante episodio della serie Chiami il mio agente! non riesco più a vedere con gli stessi occhi).
In questo “filmone” in costume c’è una lunga sequenza che racconta l’ingresso del protagonista, il poeta Lucien, nel frenetico mondo della stampa “libera” nella Parigi della restaurazione. La descrizione dell’industria della marchetta e della bufala da sola vale tutto il film e meriterebbe la proiezione nelle scuole di giornalismo. Proprio dopo la visione di Illusions perdues ho solidarizzato con un addetto stampa che, assediato da giornalisti in cerca di scorciatoie, mi ha detto sconsolato a mezza bocca: “Ecco. Siamo al mercato del pesce”.

Cos’altro ci porteremo dietro dalla 78esima edizione della Mostra? Sicuramente Neil, interpretato da Tim Roth in Sundown, scritto e diretto da Michel Franco. Nel suo laconico dramma il regista messicano prova ripetutamente a depistare il pubblico prima di condurlo alla deprimente conclusione che la felicità è una costruzione faticosa e che andare alla deriva, rimanere sotto traccia, è forse l’unico modo per non essere scovati dalle imposizioni sociali e potersi così spegnere lentamente, rimandando a domani ogni sofferenza.

Ci porteremo dietro la caparbietà di Hatzin, un ragazzino mestizo (non bianco) che arriva nel nord del Messico per “ritirare” i resti del padre, trovati in una delle fosse comuni riempite dai narcotrafficanti in mezzo al deserto. Ma La caja di Lorenzo Vigas parla solo indirettamente dei cartelli della droga. Mentre Hatzin sta tornando a casa vede per strada un uomo uguale a suo padre (un bianco) e comincia a seguirlo. Alla ricerca di qualche traccia delle sue radici finisce in un mondo di sfruttamento e morte, di piccoli imprenditori meschini e spregiudicati, che se non hanno niente a che fare con i famigerati cartelli, sono comunque capaci di prosperare tra i loro veleni.

Ci porteremo dietro infine anche le buffonate di tre mattatori, Penélope Cruz, Antonio Banderas e Oscar Martínez, nella commedia Competencia oficial di Gaston Duprat e Mariano Cohn. I tre attori si prendono in giro e prendono in giro il mondo del cinema, del privilegio e dell’egocentrismo di chi lo anima. Il film è divertente, ognuno dei tre divi ha il suo momento in cui può “gigioneggiare” liberamente, ma forse nel complesso il compiacimento di autori e interpreti supera ogni possibile intento satirico.

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Chiudiamo in letizia. Volendo forzare un po’ la mano Halloween kills si potrebbe forse anche tradurre con “Halloween ci porterà alla tomba”. Il film, ennesimo capitolo della saga di Michael Myers, realizzato da David Gordon Green, è chiaramente frutto dei 250 milioni di dollari raccattati al botteghino dal precedente Halloween, del 2018, che doveva già essere il capitolo definitivo della serie. Non importa come va a finire Halloween kills: la possibilità di un ennesimo, ultimissimo, definitivo, posteriore capitolo esisterà sempre, almeno finché esisterà il cinema horror.

Tutto questo solo per sottolineare la presenza al Lido di Jamie Lee Curtis che debuttò nel primo Halloween, quello del 1978 di John Carpenter. La mitica attrice si è andata a prendere un Leone d’oro alla carriera accompagnata proprio da Michael Myers che faceva capolino dalle locandine del film sparse per il Lido. Per il prossimo capitolo magari li vedremo insieme in crociera.

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