30 luglio 2014 18:20

*L’ex presidente dello Zambia Rupiah Band (con la sciarpa), il presidente Michael Chilufya Sata (con la cravatta), l’ex presidente Kenneth Kaunda e il vicepresidente Guy Scott insieme ai calciatori della nazionale dopo la vittoria della Coppa d’Africa, il 14 febbraio 2014. (Mackson Wasamunu, Reuters/Contrasto) *

*Ogni settimana il giornalista francese Pierre Haski racconta un paese di cui non si è parlato sui mezzi d’informazione. *

Per molti anni dopo il processo di indipendenza degli anni sessanta, nelle stanze del potere dei paesi africani c’erano diversi bianchi. Si trattava per lo più di “consiglieri” inviati dalle ex potenze coloniali, con l’incarico di aiutare i nuovi e inesperti governi e soprattutto di proteggere gli interessi economici e strategici degli ex padroni.

A seconda dei casi, la loro presenza si è protratta per anni o addirittura decenni. In alcuni paesi questi consiglieri hanno avuto un potere eccessivo, per esempio nella Repubblica Centrafricana degli anni ottanta, dove un operatore turistico che stava per firmare un accordo con il ministro dei trasporti ha visto irrompere nell’ufficio il consigliere francese che ha messo il suo veto, impedendo la conclusione dell’accordo.

Eppure sono pochi i bianchi che si sono fatti conoscere dal grande pubblico. Nel tentativo di affermare la propria identità, i governi africani preferivano lasciarli nell’ombra, dove potevano prendere le decisioni importanti lontano dagli sguardi dei cittadini, che probabilmente non avrebbero gradito.

I tempi sono cambiati? Oggi i potenti consiglieri sono meno numerosi e sono stati sostituiti da costosi “consulenti” – come il marito di Cécilia Sarkozy, Richard Attias – che si occupano di comunicazione per gli autocrati. Nel frattempo, anche le ex potenze coloniali sono cambiate.

Guy Scott appartiene a un’altra categoria, quella degli africani bianchi. Settant’anni, laureato in economia a Cambridge e in robotica a Oxford, è vicepresidente dello Zambia dal 2011. Si tratta della più alta carica ricoperta da un bianco in un paese africano dagli anni sessanta, ovviamente con l’eccezione del Sudafrica dell’apartheid e della Rhodesia bianca durante l’indipendenza unilaterale.

Scott è nato nella fattoria di famiglia a Livingstone, sulle cascate Vittoria lungo il fiume Zambesi, che separano lo Zambia dallo Zimbabwe, una delle meraviglie turistiche del continente. Figlio di una inglese e di uno scozzese arrivato nel paese nel 1927 e impegnato a fianco dei sostenitori dell’indipendenza zambiana, Scott appartiene alla piccola minoranza bianca zambiana: 40mila persone su una popolazione totale di oltre 14 milioni di abitanti.

Come suo padre, Scott si è impegnato in politica, diventando l’unico deputato bianco del parlamento zambiano a partire dagli anni novanta. Dopo essere stato ministro dell’agricoltura, Scott è passato all’opposizione e si è alleato con Michael Sata, che nel 2011 è riuscito al quarto tentativo a vincere le elezioni presidenziali.

Sata sapeva che nominando Scott vicepresidente si sarebbe attirato delle critiche. Ma era un modo per dimostrare che non era un fautore del tribalismo e che sceglieva i suoi collaboratori in funzione delle loro competenze, non della loro origine o del colore della loro pelle.

Scott si è ritrovato però in una situazione particolare: in quanto vicepresidente, è a lui che spetta il potere in caso di assenza del capo dello stato, ma la costituzione prevede che il presidente debba essere figlio di zambiani (cosa che Scott non è).

Una situazione che ha rischiato di verificarsi, perché il presidente Sata è partito per un viaggio “privato di lavoro” [sic] in Israele, dove secondo delle informazioni non confermate sarebbe stato ricoverato in ospedale nel giugno scorso.

Secondo la stampa ufficiale il presidente sarebbe tornato nel paese, ma prima ha dovuto nominare un presidente a interim. La scelta non è caduta sul vicepresidente Scott, ma sul ministro della giustizia Wynter Kabimba. Un modo per riconoscere che Scott non è uno zambiano come gli altri.

Il vicepresidente però fa notare che pochi paesi in Africa avrebbero accettato di avere un bianco tra le più alte cariche dello stato. Neanche nel Sudafrica “arcobaleno” mitizzato da Nelson Mandela i bianchi occupano posti così importanti e vicini al presidente, anche se fanno parte del governo.

Una situazione del genere è impensabile nella maggior parte dei paesi a sud del Sahara, dove poche famiglie bianche hanno conservato dopo l’indipendenza un radicamento simile a quello di Scott in Zambia.

Non solo in Zambia. In Africa ci sono però altri personaggi simili a Scott. In Kenya, per esempio, i due figli del celebre paleontologo Louis Leakey sono importanti uomini politici. In Uganda Ian Clarke, cittadino con la doppia nazionalità britannica e ugandese, è stato eletto a capo di un distretto della capitale, nonostante una complicata storia personale.

In ogni modo lo Zambia rimane un caso particolare, dove malgrado le forti tensioni degli anni settanta e ottanta, quando era uno dei paesi che componevano la cosidetta “linea del fronte” contro il Sudafrica dell’apartheid, la convivenza è stata relativamente equilibrata.

Questo lo si deve probabilmente alla personalità del primo ministro Kenneth Kaunda, che ha svolto un ruolo importante nella storia dell’Africa australe. Figlio di un pastore protestante, ha pianto durante una conferenza stampa sull’oppressione dell’apartheid e quando ha annunciato che il figlio era morto di aids a un’opinione pubblica ancora poco sensibilizzata.

All’apice delle tensioni Kaunda ha protetto i proprietari terrieri bianchi che erano rimasti nel paese dopo l’indipendenza, rifiutando la visione semplicistica che faceva di tutti i bianchi dei sostenitori dell’apartheid. Quando il vicino Zimbabwe di Robert Mugabe ha cominciato a mostrare un atteggiamento autoritario e intollerante, molti proprietari bianchi hanno deciso di emigrare in Zambia e non nel Regno Unito o in Australia. E sono ancora là.

Lusaka, la capitale del paese, era al tempo stesso una base dei movimenti di liberazione dell’Africa australe e un luogo di dialogo per risolvere i conflitti. Qui alla fine degli anni settanta ho intervistato Thabo Mbeki, all’epoca responsabile delle relazioni internazionali dell’African National Congress (Anc) sudafricano e futuro successore di Mandela, e Joe Slovo, un bianco di origine lituana che guidava il Partito comunista sudafricano (Sacp).

Quando lo incontravo a Lusaka, Slovo ironizzava su Le Figaro, che nella sua foga anticomunista lo aveva accusato di essere un “colonnello del Kgb” sovietico: “Sono anni che dicono che sono un colonnello del Kgb, ma devo essere veramente un cattivo militare se dopo tutto questo tempo non sono ancora riuscito ad avere una promozione!”. Nei momenti più tesi della transizione sudafricana, Slovo ha avuto un importante ruolo di conciliatore, molto lontano dalla figura di agente sovietico.

Questa storia dimostra che non c’è nulla di strano nel vedere uno zambiano bianco impegnarsi in politica e arrivare a una carica importante. Questo non avviene in tutta l’Africa, ma mostra che il “continente nero”, spesso descritto in occidente come vittima del tribalismo e dell’emarginazione, può anche essere portatore di valori come la tolleranza e l’apertura.

• *Abitanti: * 14 milioni

• *Capitale: * Lusaka

Pil annuo: 1.431 dollari per abitante, 153° su 180 secondo la Banca mondiale.

*Tre cose interessanti:

• Lo Zambia non ha accesso al mare ed è grande una volta e mezzo la Francia. Negli anni settanta era il maggiore beneficiario di investimenti cinesi, come la costruzione di una ferrovia verso le coste della Tanzania - chiamata “la ferrovia della libertà” - per ridurre la sua dipendenza nei confronti del Sudafrica dell’apartheid.

• Dopo la sua indipendenza dal Regno Unito nel 1964, lo Zambia ha avuto cinque capi di stato e diverse maggioranze di governo. Nonostante le tensioni interne ed esterne, nel paese non c’è mai stato un colpo di stato militare.

• Il rame è la principale risorsa mineraria del paese. In passato è stato sfruttato dalle aziende sudafricane, che sono poi state sostituite da quelle cinesi. Negli anni sessanta l’agronomo ecologista francese René Dumont, autore del libro L’Afrique noire est mal partie, parlava del rame dello Zambia come di una “maledizione”. La definizione è ancora attuale, e questa ricchezza non ha ancora permesso il decollo economico del paese.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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