24 agosto 2021 15:59

Sarebbe facile considerare gli eventi drammatici di Kabul come “la crisi di Joe Biden”, concentrandosi solo sulle conseguenze umanitarie per poi passare ad altro. Sarebbe comodo, certo, ma anche un grave errore.

Il significato della catastrofica ritirata dall’Afganistan delle forze statunitensi riguarda infatti il mondo intero, e dunque anche l’Europa e la Francia, non fosse altro perché i soldati francesi hanno combattuto al fianco degli americani e degli afgani e novanta di loro hanno perso la vita. La “crisi di Joe Biden” è anche la nostra, per ciò che dice sullo stato del mondo.

Benjamin Haddad, ricercatore francese dell’Atlantic council di Washington, ha riassunto bene il 15 agosto (giorno della caduta di Kabul) la chiave di lettura principale delle decisioni e del discorso del presidente Biden. “Il dibattito sulla possibilità di capire se Donald Trump fosse un’aberrazione o solo un’acceleratore delle tendenze preesistenti in politica estera americana (che sarebbero andate avanti dopo di lui) è sostanzialmente chiuso”.

Un unico criterio
Nel 2019 Haddad ha pubblicato un libro, Le paradis perdu, in cui spiegava che “Donald Trump non è un incidente della storia né un fenomeno passeggero, ma il sintomo di una trasformazione profonda della potenza americana in crisi”. I fatti di Kabul gli hanno dato ragione. A questo punto sarebbe sbagliato concludere, come si è tentati di fare sbrigativamente davanti alle immagini disastrose dell’aeroporto di Kabul, che l’America non sia più credibile o che intenda ritirarsi dalle vicende del mondo.

Gli Stati Uniti restano la prima potenza economica e militare del pianeta, e chi dovesse scommettere su un’eclissi duratura commetterebbe un grave errore. Al contempo, però, l’epoca dell’America gendarme del mondo è finita. Il gendarme sarà più selettivo e sceglierà le crisi in cui intervenire.

Di interessi, in Afghanistan, non ce n’erano, dunque gli Stati Uniti si ritirano

Biden non si ritira dall’Afghanistan per concentrarsi esclusivamente sull’America, come accaduto dopo la prima guerra mondiale, ma per affrontare la sfida cinese, in un mondo tornato a essere instabile e conflittuale. Questa “dottrina Biden”, che purtroppo sta prendendo corpo a scapito della società civile afgana, significa che Washington ha ormai un unico criterio: l’interesse diretto degli Stati Uniti. E di interessi, in Afghanistan, non ce n’erano, dunque gli Stati Uniti si ritirano.

Con le spalle al muro
L’onda d’urto di questa constatazione è immensa, in particolare per gli alleati europei. Molti speravano che la vittoria di Biden su Trump avrebbe segnato un ritorno allo statu quo ante, a un’America in versione da dopo guerra fredda, grande potenza benevola e affidabile. Ora hanno scoperto che le cose non stanno così, anche se Biden ha riaffermato il suo impegno rispetto alla Nato e all‘“articolo 5” che vincola gli Stati Uniti. È significativo che il paese dove lo shock si è sentito di più sia il Regno Unito, che subito dopo aver tagliato i ponti con l’Unione europea ha scoperto che la “relazione speciale” con Washington è solo uno slogan. Londra, infatti, è stata messa davanti al fatto compiuto del ritiro dall’Afganistan, esattamente come gli altri. Il dibattito alla camera dei comuni all’indomani della caduta di Kabul aveva l’aria di un risveglio doloroso. Gli europei, intanto, sono con le spalle al muro. Per l’ennesima volta, verrebbe da dire.

A forza di discutere di “autonomia strategica” senza però dotarsi dei mezzi necessari per realizzarla, gli europei hanno creato una situazione di dipendenza permanente che li ha trasformati in comprimari (per quanto di lusso) della potenza americana. Sarebbe bello credere che la crisi sarà stimolante e arriverà la presa di coscienza della necessità di un’Europa autonoma, forte e coerente. Purtroppo, però, non c’è nulla di meno certo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it