28 ottobre 2021 09:54

La cerimonia che si è svolta il 27 ottobre al Museo del Quai Branly, a Parigi, ha una dimensione simbolicamente e politicamente forte: sono state restituite al Benin 26 sculture del regno di Abomey, frutto di una conquista militare francese nel diciannovesimo secolo, nonché una parte essenziale del patrimonio storico di cui il paese dell’Africa occidentale è stato privato per 130 anni.

Quando il generale Alfred-Amédée Dodds, in nome della terza repubblica francese, conquistò il regno condannando il re Behanzin a un esilio da cui non è mai rientrato, quel tipo di azione rientrava pienamente dello spirito dell’epoca. I britannici si comportavano nello stesso modo in Nigeria, i belgi in Congo e i portoghesi in Angola.

Il 90-95 per cento del patrimonio culturale africano è stato sottratto e portato in Europa, dove oggi arricchisce i tesori del Quai Branly, del British museum, del museo reale del Belgio o della fondazione Humboldt in Germania. Ora queste prestigiose istituzioni ricevono una più che legittima richiesta di restituzione degli artefatti. La Francia ha preso per prima l’iniziativa, con il rapporto commissionato nel 2018 da Emmanuel Macron a due esperti, il senegalese Sénégalais Felwine Sarr e la francese Bénédicte Savoy, e con questa prima restituzione al Benin. Non è un gesto da poco.

Il gesto è figlio di un mondo in cui l’occidente ha smesso di dettare legge

Da un lato c’è una dimensione di giustizia e dignità che serve un interesse diplomatico evidente; dall’altro un principio fondamentale, il carattere inalienabile delle collezioni nazionali in Francia, dove qualsiasi opera che entra poi non esce più.

Nelle sue memorie appena pubblicate Daniel Jouanneau, ex capo del protocollo della presidenza francese sotto François Mitterrand, racconta un episodio eloquente: nel 1993 il presidente effettuò una visita in Corea del Sud nella speranza di vendere al governo di Seoul il treno ad alta velocità francese, il Tgv. Ma i coreani reclamavano la restituzione di 287 manoscritti reali sottratti dalla marina francese durante il Secondo impero (1852-70) come rappresaglia dopo un massacro di missionari cristiani. Niente manoscritti, niente Tgv.

Mitterrand mise a punto uno stratagemma: portò con sé un unico manoscritto per avviare il negoziato. Ma quando i responsabili della biblioteca nazionale di Francia che lo accompagnarono con il prezioso tomo scoprirono, una volta arrivati, che avrebbero dovuto abbandonarlo, rifiutarono un gesto che ai loro occhi violava l’inalienabilità di cui sopra.

Racconta l’ex capo del protocollo: “Due logiche, entrambe rispettabili, entrarono in rotta di collisione: l’etica dei curatori d’archivio contro la legge e la ragione di stato. Alla fine i curatori cedettero, ma con grande rammarico. Una di loro scoppiò in lacrime”. Vale la pena precisare che i 287 manoscritti si trovano attualmente in Corea e che la Francia ha costruito il Tgv coreano.

La “ragione di stato” è all’opera anche oggi, e Macron ha dovuto fare ricorso a una legge introdotta l’anno scorso per restituire le opere al Benin. Il gesto di Parigi fa parte del tentativo di stabilire nuovi rapporti con il continente africano, e il percorso passa anche per queste dimostrazioni di rispetto.

Si tratta di un processo universale impossibile da arrestare, che urterà la sensibilità di qualcuno ma è figlio di un mondo in cui l’occidente ha smesso di dettare legge e soprattutto deve fare i conti con il propio passato, anche quello più oscuro.

I simboli del regno di Abomey tornano a casa, ed è giusto così. Andremo ad ammirarli in Benin, questa volta senza portare la guerra.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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