“Troppi interventi fuori area”. Così Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne, ammoniva qualche settimana fa l’Italia, colpevole di prestare soccorso ai barconi in difficoltà anche in aree al di fuori dalle zone di competenza della missione Triton.
Era l’inizio di dicembre del 2014. Il direttore della divisione operativa di Frontex, Klaus Roesler, scriveva al direttore dell’immigrazione e della polizia delle frontiere del ministero dell’interno, Giovanni Pinto, richiamando la sua attenzione sui ripetuti interventi fuori area dei mezzi italiani, in particolare della guardia costiera. L’area di azione della missione Triton, che dal 1 novembre 2014 ha sostituito Mare nostrum, è di 30 miglia marine. I mezzi italiani, com’è successo anche tra l’8 e il 9 febbraio quando hanno soccorso 105 migranti (29 dei quali sono poi morti d’ipotermia), si sono diretti spesso anche molto più in là.
La cosa non risulta gradita al funzionario dell’agenzia europea: le azioni di soccorso “in zone poste fuori dall’area operativa di Triton non sono coerenti con il piano operativo e purtroppo non saranno prese in considerazione in futuro”, scrive Roesler. Il direttore lamenta come, sulla base di chiamate di telefoni satellitari, gli italiani intervengano immediatamente con pattugliatori d’altura. Un’azione che è ritenuta “non necessaria né conveniente sotto il profilo dei costi”. La guardia costiera italiana ha sempre risposto facendo valere la legge del mare e l’obbligatorietà del soccorso. Ma, alla luce della strage degli ultimi giorni, questa lettera mostra come la missione Triton non è solo insufficiente, ma forse addirittura controproducente.
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